domenica 9 marzo 2008

Quando il terzo non è dato. La logica sillogistica del cambiamento che non c’è.

Mi ha sempre incuriosito la grande differenza tra le culture occidentali e quelle orientali. Penso che una delle maggiori diversità riguardi proprio il cambiamento e il modo stesso di concepirlo.
Al potente mondo occidentale, il cambiamento più di tanto non piace. Seduce ed entusiasma la trasformazione della natura, il sentirsi artefici della propria ricchezza, il vedersi a capo del mondo. Ma l’idea che una persona cambi risulta quasi intollerabile, oltre che impossibile e comunque non auspicabile. Quante volte mi sono infilata in conversazioni inconcludenti con persone (soprattutto uomini) che ritengono il cambiamento non attuabile: se una persona è un ciuco, tale rimarrà per tutta la vita. Nella vita c’è non cambiamento, ma scivolamento verso i propri tratti dominanti: i tuoi difetti risulteranno via via più accentuati, i tuoi pregi andranno (ma non è detto) ad intensificarsi. Più di questo non si può avere.

Quando parlo con degli amici orientali, invece, trovo una situazione diametralmente opposta. Nessuna volontà di cambiare il mondo: quello va bene così com’è, un’arroganza inutile cercare di modificarlo. Apertura massima, invece, per cambiare e cambiarsi. Anzi, come diceva Confucio: se non vedi una persona da qualche giorno, appena la ri-incontri osservala bene per capire cosa è cambiato in lei.

Può essere, mi sono detta spesso, che alla base di queste diverse posizioni ci sia anche un fraintendimento linguistico. Forse dietro ad una stessa etichetta linguistica noi abbiamo infilato a forza concetti diversi e, come si sa, le parole costruiscono significati e ci consolidano nel nostro modo di vedere il mondo. L’esquimese con le sue nove parole per designare la neve riesce a cogliere delle differenze che noi, con la nostra unica parola, non riusciamo neanche a vedere. Analogamente, può essere che noi occidentali non riusciamo ad accorgerci delle piccole modificazioni perché non rientrano nel nostro vocabolario percettivo, immaginativo e concettuale. Si trova quello che si cerca: se noi sappiamo che le persone non cambiano, non le osserveremo per rivelare quello che diamo per scontato non possa esserci. Anche perché, se ci accorgiamo che la persona non è quella che ci sembrava, non diamo la colpa ad un eventuale cambiamento, bensì al fatto che non avevamo visto bene sin dall’inizio. Oppure penseremo che la persona ci ha ingannati.

È una situazione tristemente ripetuta, per esempio, al termine delle storie d’amore: duro l’ammettere che non ci sia più l’amore, più facile convincersi che, in fondo in fondo, evidentemente non c’è mai stato. Incompatibilità caratteriale: quella persona per noi non poteva andar bene, sin dall’inizio, dovevamo accorgercene.. Usiamo cioè un pensiero controfattuale: se le conseguenze di un atto non ci piacciono, ci convinciamo che erano le premesse sbagliate e per questo si è arrivati a quelle conclusioni. Se avessi studiato di più, all’esame sarei andato bene; se lei fosse stata la persona che credevo, non avrebbe fatto questa cosa. Riduciamo il mondo a macrovariabili, per cullare l’illusoria certezza di saperlo e poterlo controllare. Adottiamo la rassicurante logica sillogistica per cui se “a” allora “b”, se “non b” allora “non a”. Il terzo non è dato, né concepito: una persona non può essere “a” e “b” insieme, non può essere buona o cattiva, né trasformarsi con il tempo. Mi verrebbe da dire: che bello se la vita fosse davvero così cristallina, chiara, rassicurante. Un secondo, perché poi penso: ma davvero? Sarebbe davvero meglio se la vita fosse davvero così cristallina, chiara, rassicurante?

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