lunedì 31 marzo 2008

Le storie da vivere, da scrivere, da raccontare.


"Raccontare storie è educare, elevare: non è una pratica oziosa. Se ci sono traffici di storie, per cui due persone si scambiano storie come doni reciproci, è perché ormai si conoscono bene, si sentono affini. E così deve essere. Sebbene alcuni usino le storie come puro intrattenimento, esse sono, nel senso più antico, un’arte curativa. Alcuni a quest’arte sono chiamati, i migliori, a mio avviso, sono coloro che giacquero con la storia e ne scoprirono tutte le parti che si adattano l’un l’altra dentro di sé e in profondità. Occupandoci di storie, maneggiamo energia archetipa, che molto ha in comune con l’elettricità. Può animare e illuminare, ma nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, come qualsiasi medicina, può avere effetti indesiderati. Talvolta le persone che collezionano storie non si rendono conto di che cosa chiedono quando chiedono una storia di questa dimensione. L’archetipo ci cambia; se non c’è cambiamento, non c’è stato vero contatto con l’archetipo.
(…) Invito le persone a tirare fuori la loro storia, perché graffiarsi le mani, dormire sulla terra fredda, brancolare nel buio, e tutte le avventure che capitano, valgono tutto. Su ogni storia deve cadere qualche goccia di sangue, se dev’essere di medicamento.Spero che lascerete che le storie vi accadano, e che le elaborerete, le innaffierete con il vostro sangue e le vostre lacrime e le vostre risa finché non fioriranno, finché voi medesime non fiorirete. Allora vedrete che medicine sono, e dove e quando somministrarle. Questo è il lavoro. L’unico lavoro".

C’era una volta una creatura alla quale il pessimo carattere aveva provocato difficoltà enormi e la perdita di buoni amici. Si avvicinò a un vecchio saggio coperto di stracci e gli domandò: “come potrò riuscire a tenere sotto controllo questo demone della rabbia?” Il vecchio gli consigliò di raggiungere una lontana oasi riarsa nel deserto, di sedere tra gli alberi secchi e di raccogliere l’acqua salmastra per i viaggiatori che vi si fossero avventurati.
E l’uomo, nel tentativo di vincere la sua collera, andò nel deserto fino al posto degli alberi secchi. Per mesi, avvolto in mantelli e nel burnus per proteggersi dalla sabbia, raccolse l’acqua salmastra e la offrì a tutti quelli che passavano. Trascorsero gli anni, e non soffriva più di accessi di collera.
Un giorno arrivò all’oasi morta uno scuro cavaliere, e lanciò un’occhiata altezzosa all’uomo che gli offriva l’acqua in una ciotola. Il cavaliere disprezzò l’acqua torbida, la rifiutò, e riprese a cavalcare.
L’uomo che aveva offerto l’acqua andò subito in collera, tanto da esserne accecato, e afferrò il cavaliere, lo tirò giù dal suo cammello e lo uccise. Immediatamente, con dolore comprese di essere stato consumato dalla collera. Ed ecco che cosa accadde poi.
D’improvviso un altro cavaliere arrivò al galoppo. Guardò in volto il morto ed esclamò: “Allah sia ringraziato! Hai ucciso l’uomo che stava andando ad assassinare il re!” E in quel momento l’acqua torbida dell’oasi si fece limpida e dolce e gli alberi secchi dell’oasi diventarono verdi e si ricoprirono di gemme.


Da: Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi. Il mito della donna selvaggia, Frassinelli, 1993
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/lozingaro/2273236459/)

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