domenica 24 febbraio 2008

Il cambiamento, questo nemico. Storie di liminarità e riti di passaggio.

Nel suo libro In Patagonia, Bruce Chatwin ci regala un’immagine del cambiamento estremamente efficace. Racconta infatti che, le popolazioni locali, per descrivere il cambiamento fanno riferimento al momento in cui il granchio cambia guscio: affinché si formi quello nuovo, l’animale deve perdere il vecchio e rimane per un certo periodo completamente vulnerabile.
E’ quello stadio che l’antropologo tedesco (naturalizzato francese) Arnold van Gennep ha definito liminare. Nel suo libro Riti di passaggio, pubblicato nel 1909 (il cambiamento non è tema di interesse solo per i nostri tempi ;-), van Gennep parla del cambiamento come stadio della vita caratterizzato da tre momenti: una fase preliminare, in cui il cambiamento non ha ancora avuto corso ma si sta preparando; la fase liminare, in cui il cambiamento si attiva; la fase postliminare in cui il cambiamento è avvenuto e ci si deve riadeguare ad una nuova normalità, rientrando negli “schemi” sociali.
Ogni fase ha una sua specificità, quella centrale è la più delicata. Per esprimerci usando un gergo proprio della psicologia popolare, è il momento della vita in cui non si è “né carne, né pesce”. E’quanto sperimentano gli adolescenti, per fare un esempio concreto, che non sono più ragazzi (e ai quali i genitori e gli insegnanti richiedono atteggiamenti e comportamenti consoni a giovani maturi raziocinanti e responsabili), ma di fatto non sono ancora adulti (e quindi sono assoggettati a regole spesso non discutibili, al “finché vivrai sotto questo tetto…”, ad una libertà talmente condizionata e controllata da sembrare una prigione: i bambini ne hanno di più!). Altro momento della vita oggi fortemente conflittuale è quello del pensionamento: persone ancora giovani e capaci di grande produttività che si sentono rifiutate dal mondo del lavoro (spesso in realtà ne son felici, anche comprensibilmente) e sono quindi buttate senza cautela nel grande calderone dell’anzianità, che nello stereotipo comune è fatta ancora di pannoloni, bava alla bocca, dipendenza completa e smemoratezza, ma in realtà (soprattutto nella sua prima parte) è fatta di energia-tempo libero-desiderio di appartenenza talora incapaci di trovare applicazione.
La paura che spesso accompagna il cambiamento e talora ci attanaglia impedendoci di muoverci, è certo legata a doppio filo alla vulnerabilità di questa fase di liminarità. Tutto può accadere, nemmeno la nostra identità è certa, non vi sono sicurezze e ci vuole molta pazienza, equilibrio psicologico ed autoironia per capire che tutto cambia perché nulla cambi.
Van Gennep aveva puntato la sua attenzione sull’importanza dei riti di passaggio delle società non civilizzate da lui analizzate. Si trattava di rituali che – socialmente definiti e condivisi – aiutavano le persone nei momenti di cambiamento presentando “cornici” di stabilità formale, azioni e cerimonie collettive per impedire al singolo individuo di perdersi, sottolineando come il cambiamento è proprio di certi momenti della vita, solo un ponte da attraversare, ben rodato dai passi di tutti quelli che l’hanno già solcato. Così la nascita, l’iniziazione sessuale, sposarsi diventano in quelle comunità momenti da sancire e festeggiare uniti. Non momenti di divisione, bensì di aggregazione e di riaffermazione di appartenenza. Le società cosiddette primitive lo erano davvero tanto?

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