venerdì 29 febbraio 2008

Principio zen. La via dell'essere è il fare.

Torniamo alla domanda: come trasformare i pensieri in atti? Ho già detto che è difficile correggersi, anche quando si fa di se stessi l'oggetto d'analisi. Ho dato un esempio per dimostrare che non si “corregge”, ma che si sviluppano nuovi atteggiamenti. Come probabilmente avete già pensato, l’intenzione, per essere messa a profitto, deve essere seguita da un’azione corretta, al fine di poter acquisire una nuova abitudine, migliore della precedente. Senza questo, l’analisi è inutile come il pensiero fine a se stesso. Qualunque cosa si intraprenda, nessun progresso è possibile se non si acquisiscono delle nuove abitudini. Senza l’azione, tutti i pensieri e le analisi di se stessi non portano a niente. È per questo che è essenziale creare l’abitudine ad agire, di mettere le cose in pratica. Qualunque abilità può essere acquisita con la ripetizione costante. E noi possiamo applicare immediatamente questa regola d’ora. Se avete intenzione di fare qualcosa, per insignificante che sia, fatelo subito senza dilazioni. Incoraggiatevi da soli e portate i vostri progetti a buon fine senza scoraggiarvi. Quando l’abitudine si è radicata, ciò che vi sembrava irrealizzabile potrà compiersi e le porte si apriranno su nuovi orizzonti.
Il detto “si impara facendo” non è così semplice come appare a prima vista, ma non rifiutatelo come se non vi riguardasse. Riguarda tutti noi.

da: Shinichi Suzuki, Crescere con la musica, Nuova Carisch 1996

Genitori e il cambiamento dei costumi

Negli ultimi anni l'evoluzione dei costumi è stata molto massiccia anche se non così dirompente come nel passato ( ad esempio negli anni 60/70 con il femminismo, la contestazione e l'amore libero) Molte evoluzioni non sono durature; spesso si assiste ad un parziale ritorno al passato , anche se ogni cambiamento importante lascia una traccia indelebile nel tempo, una strada tracciata da cui non si torna più indietro, salvo per effimere mode . Ogni generazione assiste ad un cambiamento proprio quando vede prima i propri figli e poi i nipoti fare scelte di vita e di comportamento innovative e molto diverse rispetto alle proprie. Pochi sono abbastanza flessibili da considerare con rispetto o accettare decisioni che contrastano con il proprio concetto di moralità, di comportamento sessuale, di scelte professionali e di stili di vita.
I rapporti genitori-figli sono fortemente condizionati dalla capacità dei genitori di capire le evoluzioni in corso e governarle. Perchè questa difficoltà?
Innanzitutto, esiste la tendenza a dimenticare in fretta i contrasti che noi abbiamo avuto sullo stesso argomento con i nostri genitori. Poi, molti genitori pensano che esistano numerosi "valori" universali che dovranno valere sempre e non evolvere mai, alcuni sani principi di buonsenso rifiutando i quali si incorrerà in futuri disastri. Il nuovo fa paura perchè non lo possiamo conoscere, attribuiamo un significato sulla spinta emotiva, non su basi razionali, pensando a conseguenze incerte ma probabilmente nefaste . In questo momento storico, si assiste alla compresenza di due desideri ambivalenti, alternativamente di restaurazione, di conservatorismo, versus liberalismo, con comportamenti che tendono a mettere in discussione dogmi moralistici e religiosi
Che cosa ha a che fare tutto ciò con la relazione genitori-figli? E’ innegabile che il rapporto con i giovani ponga in campo sfide continue che non ritengono consigliabile, per i genitori, assumere un atteggiamento eccessivamente conservatore. Il mondo è in continua evoluzione e restare immobili sulle proprie posizioni o indietreggiare rischia di produrre sofferenza ed emarginazione. E’ auspicabile, per un armonico sviluppo della nostra società, che i genitori si concentrino sui pochi ma grandi principi di comportamento etico che devono essere salvaguardati e offerti alle nuove generazioni all’interno di un dialogo di costruzione di valori e non di scontro.

giovedì 28 febbraio 2008

Culture lente culture veloci

Ancora a proposito di cronobiologia, osserviamo l’evidenza che i ritmi circadiani sono influenzati non soltanto dagli orologi interni e dalle basi genetiche, ma presentano anche rilevanti variazioni connesse con i fattori ambientali e socioculturali. In questo ambito si distinguono le culture veloci da quelle lente.
Le culture veloci sono caratterizzate da un alto grado di industrializzazione, dal benessere economico, da condizioni climatiche fredde, dall’orientamento all’individualismo e al successo e da un’elevata densità di popolazione. Esse hanno una prospettiva temporale orientata al futuro, qualificata dalla pianificazione di un traguardo a medio e a lungo termine.
In questo tipo di società i vincoli temporali sono forti e orientano ad organizzare le attività secondo un orario che consente di realizzare un’attività per volta. In esse domina la concezione che equipara il tempo al denaro, spingendo l’accelerazione dei ritmi di vita, sostenuta anche dalle recenti innovazioni tecnologiche. Alcuni soggetti appartenenti a queste società sottoposti ad un test di “Personalità temporale” dimostrano di sperimentare un senso di ansia, di disorientamento e di pressione temporale.
Le culture lente, invece, sono caratterizzate da un modesto grado di industrializzazione, da povertà, da condizione climatiche calde, dall’orientamento alla collettività e all’armonia e da una limitata densità di popolazione. Esse hanno una prospettiva temporale orientata al presente, senza l’esigenza di una programmazione anticipata che comprenda un ampio arco temporale. Nelle culture lente, la modesta suddivisione dei lavori e la limitata specializzazione del tempo consentono la compresenza di diverse attività svolte nel medesimo tempo.
Di conseguenza ogni soggetto è portatore, a volte inconsapevole, di uno specifico ritmo personale che dà per scontato sia uguale a quello degli altri. Di regola, le cose non avvengono in questo modo, e l’interazione con soggetti che hanno ritmi biologici e psicologici notevolmente differenti può generare incomprensioni, sfasamenti.
Ad esempio, nelle culture veloci i turni di parola nella conversazione sono rapidi, efficienti, con pause limitate. Invece, nelle culture lente le persone trovano offensivo affrettare la conversazione e fra uno scambio e l’altro amano rispettare lunghe pause e silenzi. Ma anche all’interno della medesima cultura, individui diversi hanno spesso ritmi circadiani differenti, dal ciclo sonno-veglia, alla velocità o lentezza di assunzione del cibo, dell’attività sessuale, della lettura, del camminare.
Tale condizione è alla base di incomprensione, di frustrazione e di delusione reciproca, che frequentemente sfociano in contrasti e conflitti.
Il ritmo personale costituisce la sintesi fra gli orologi biologici, oscillatori interni, e gli aspetti culturali, ritmi sociali. Il benessere prevede la loro coerenza e la loro sincronizzazione. Gli sfasamenti ritmici sollecitati dalla società contemporanea, come il jet-lag (accelerazione dei ritmi circadiani nei voli aerei verso oriente o la loro decelerazione nei voli aerei verso occidente) o come i turni di lavoro, possono produrre disturbi del sonno, affaticamento e malessere generale.
Questo fenomeno pone in evidenza che il trascinamento dei ritmi interni da parte di quelli esterni può avvenire soltanto entro certi limiti.
L’essere umano rimane una specie diurna, anche se alcuni prevedono la possibilità che in futuro la specie umana si trasformi in specie incessante.

Tratto dal volume Psicologia generale L.Anolli, P.Legrenzi, IL Mulino, 2003, manuale di base consigliato a chi ha interesse a conoscere la psicologia secondo i suoi fondamenti scientifici.

mercoledì 27 febbraio 2008

Qohélet, 3, 1-11. Per tutto è sotto il cielo una stagione

Per tutto è sotto il cielo una stagione
Per ogni evento un’ora
Un’ora per nascere Un’ora per morire
Un’ora per piantare Un’ora per sradicare
Un’ora per uccidere Un’ora per preservare
Un’ora per abbattere Un’ora per ricostruire
Un’ora per le lacrime Un’ora per le risa
Un’ora per il lutto Un’ora per le danze
Un’ora in cui scagli pietre un’ora in cui le accatasti
Un’ora per braccia che abbracciano un’ora per braccia che si ritraggono
Un’ora per cercarsi Un’ora per lasciarsi
Un’ora per tenere Un’ora per buttare
Un’ora per lacerare, Un’ora per ricucire
Un’ora per tacere Un’ora per parlare
Un’ora per amare Un’ora per odiare
Un’ora per la guerra Un’ora per la pace
Avrà un qualche guadagno
Chi si spende in qualche fatica?
Vedo ai figli dell’uomo
Dio dar carichi da fiaccarli
Bello è l’avvicendersi
Misurato di tutto
E riflettersi il mondo
Nei loro cuori.

Da: Qohélet. Colui che prende la parola, Adelphi, 2001

Una parabola ebrea. La storia del monaco.

Un monastero stava attraversando tempi difficili. In precedenza aveva fatto parte di un grande ordine che, in seguito a una persecuzione religiosa nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, aveva perso tutte le sue ramificazioni. Era decimato a tal punto che nella casa madre non rimanevano più che cinque monaci: l’Abate e altri quattro, tutti oltre i settanta. Era chiaramente un ordine in via di estinzione.
Nel profondo dei boschi che circondavano il monastero vi era una piccola capanna che il Rabbino di una città vicina usava di tanto in tanto per ritirarsi in eremitaggio. Un giorno accadde che l’Abate vi si recò in visita per vedere se il Rabbino poteva dargli qualche consiglio che potesse salvare il monastero. Il Rabbino diede il benvenuto all’Abate e si dolse insieme a lui. “So com’è” disse “lo spirito ha abbandonato la gente. Quasi nessuno viene più alla sinagoga”. Così il vecchio Rabbino e il vecchio Abate piansero insieme, e lessero passi della Torah e parlarono pacatamente di argomenti profondi.
Venne il momento in cui l’Abate dovette andar via. Si abbracciarono. “E’ stato bellissimo passare del tempo con te” disse l’Abate, “ ma sono venuto meno allo scopo per il quale ero venuto. Non avresti qualche consiglio da darmi per salvare il monastero?”.
“No, mi spiace” risposte il Rabbino, “non ho consigli da darti. La sola cosa che posso dirti è che il Messia è uno di voi”.
Quando gli altri monaci udirono le parole del Rabbino, si chiesero quale possibile significato potessero avere. “Il Messia è uno di noi? Uno di noi, qui, al monastero? Pensate che intendesse l’Abate? Certo, dev’essere l’Abate, che è stato la nostra guida così a lungo. D’altra parte, forse si riferiva a Fratello Thomas, che è senza dubbio un sant’uomo. O forse intendeva Fratello Elrod, che è così irritabile? Ma d’altra parte Elrod è molto saggio. Sicuramente non può essersi riferito a Fratello Phillip: è troppo passivo. Ma d’altra parte, quando hai bisogno di lui è sempre lì, come per magia. Certamente non si riferiva a me, ma supponendo che sia così? Oh, Signore, non io! Non potrei chiederti tanto, non è così?”
Mentre si interrogavano in questo modo, i vecchi monaci cominciarono a trattarsi reciprocamente con straordinario rispetto, nell’eventualità che uno di loro potesse essere il Messia. Dal momento che la foresta dove era situato era bellissima, di tanto in tanto la gente andava a visitare il monastero, per fare una merenda o per camminare lungo i vecchi sentieri, la maggior parte dei quali conducevano alla cappella in rovina. Queste persone percepirono l’aura di straordinario rispetto che circondava i cinque vecchi monaci, e permeava l’atmosfera. Iniziarono ad andare più spesso, portando i loro amici, e i loro amici portarono altri amici. Alcuni degli uomini più giovani che venivano in visita cominciarono a conversare coi monaci. Dopo un po’, uno chiese se poteva entrare a far parte del monastero. Poi un altro, e un altro ancora. Nel giro di pochi anni, il monastero tornò a essere un ordine prospero e, grazie al regalo del Rabbino, una vibrante, autentica comunità di luce e amore per l’intero reame.

Tratto da Rosamund Stone Zander e Benjamin Zander, L’arte del possibile. Diventare gli artefici del proprio successo, Il Sole 24 ore, 2001… un ottimo libro sul cambiamento e sul mondo della possibilità!

Cronobiologia: come cambiamo in seguito all'esposizione alla luce o al buio

Gli studi sui cicli biologici del bioritmo hanno dato vita alla cronobiologia, una scienza medica che ha prodotto nuove scoperte e utili applicazioni terapeutiche
Intorno al 1950, il ricercatore francese Alain Reinberg si rese conto, studiando i cicli di escrezione urinaria di sodio, cloro e potassio, che le loro concentrazioni subivano variazioni endogene, cioè indipendenti da fattori esterni. In questo modo dimostrò che l’andamento delle funzioni organiche non era costante, ma soggetto a cambiamenti: aveva scoperto, involontariamente, i cicli biologici interni che compongono il bioritmo.
Anolli e Legrenzi nel volume “Psicologia Generale” Il Mulino, 2003, affermano che le variazioni e le differenze individuali nell’alternanza fra il sonno e la veglia hanno indotto gli studiosi a valutare la presenza e l’azione dei ritmi biologici nella vita di un individuo. Si tratta dei cosiddetti ritmi circadiani che non riguardano soltanto il ciclo sonno-veglia, ma anche tutti gli altri aspetti fisiologici e psicologici (Rusak e Zucker 1979). L’insieme di questi fenomeni è oggetto della cronobiologia. I ritmi o cicli circadiani riguardano i cicli psicobiologici la cui periodicità è di circa 24 ore. Vi sono cicli infradiani con un ciclo superiore a 28 ore e quelli ultradiani con un periodo inferiore a 20 ore, come il ritmo della fame.
I ritmi mantengono la loro periodicità grazie alla presenza di fattori ambientali, il più importante dei quali è il ciclo di luce e buio. Questi sono agenti sincronizzatori ambientali Zeitgebers e danno una dimensione temporale ai ritmi circadiani. In laboratorio è possibile allungare o accorciare il ciclo luce- buio, un giorno di 20 o 30 ore con conseguenti effetti sui ritmi biologici.
Ma se improvvisamente non vi fossero più riferimenti ambientali, cosa succederebbe ad una persona in queste condizioni? La condizione si definisce di free-running in un ambiente mantenuto costante e privo di qualsiasi indizio temporale, sia gli uomini, sia gli altri animali continuano a mantenere i loro ritmi circadiani che diventano normalmente più lunghi e hanno una durata di 25 ore per la maggioranza dei soggetti, per la lentezza degli oscillatori biologici interni. Quindi ogni giorno essi si addormentano in maniera sistematica con un’ora circa di ritardo rispetto al giorno precedente. E’ un fenomeno regolare e costante come se fosse regolato da un orologio biologico interno che va più lentamente quando non è governato dai fattori ambientali e questa regolarità è mantenuta indipendente dal tipo di attività mentale o manuale compiuta dai soggetti.
Il ritmo circadiano sonno-veglia è associato a quello della temperatura corporea, l’addormentamento avviene in corrispondenza con il valore minimo della temperatura e il risveglio tende a coincidere con il suo innalzamento.
Se la condizione di free- running prosegue per oltre due settimane, si verifica una dissociazione tra questi due ritmi che diventano indipendenti, si ha la desincronizzazione interna. Il ciclo della temperatura rimane costante (circa 24,5 ore), mentre il ciclo sonno-veglia subisce notevoli variazioni e oscillazioni, con episodi di sonno di durata variabile, separati da veglie della durata anche di 50 ore.
Se il ciclo circadiano sonno-veglia persiste anche in assenza di segnali ambientali è dovuto alla presenza di un sistema neurofisiologico, chiamato orologio circadiano che ha sede in zona ben definita del cervello, nei nuclei soprachiasmatici. Si sono fatti passi avanti nell’individuazione delle basi genetiche dei cicli circadiani: si è accertato che il gene tau abbrevia i ritmi del criceto e che il gene clock di topimutanti allunga il loro ciclo delle attività circadiane.

Oltre a svelarci alcuni segreti sul funzionamento del nostro corpo, la cronobiologia permette anche applicazioni pratiche: ci indica in quali momenti l’organismo è più sensibile alle sostanze farmacologiche. In questo modo la cronofarmacologia, una branca della cronobiologia, può studiare la migliore somministrazione controllata dei farmaci. Gli studi cronofarmacologici hanno anche permesso di individuare un ormone, l’ACTH 1-17, in grado di risincronizzare l’organismo quando fenomeni esterni, come il cambiamento di fuso orario o alcune malattie, turbano l’ordine dei cicli biologici. Grazie alla cronobiologia, non solo il medico può indicarci quando assumere un farmaco, ma noi stessi possiamo conoscere meglio il nostro organismo, grazie a misurazioni semplici delle variazioni fisiologiche quali la temperatura, la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa. (Bioritmi. Ambiente e salute G.Iannuzzo)

lunedì 25 febbraio 2008

Perché i miti sono importanti e cosa ci insegnano

Una breve lezione su miti, fiabe e sul loro significato (da un punto di vista filogenetico ed ontogenetico) da colui che è considerato, a ragione, il più profondo conoscitore dei miti del mondo, Joseph Campbell. Il brano che riportiamo è tratto dal libro Il potere del mito (pubblicato in Italia da Guanda), un'intervista in cui Campbell parla di quanto ha imparato sui miti in oltre cinquant'anni di studio.

[…] I miti non sono i sogni di un altro popolo, sono i sogni del mondo, sogni archetipici che riflettono i grandi problemi dell’uomo. Servono per riconoscere i momenti di passaggio. È il mito che dice come rispondere a certe crisi, alla delusione, alla felicità, al fallimento o al successo. I miti mi dicono dove mi trovo.
[…] Esiste una sequenza tipica di azioni eroiche riconoscibile nelle storie di tutto il mondo e in periodi storici diversi. Potremmo dire che la vita dell’eroe mitico è un archetipo che si ripete in molti paesi e popoli. Di solito, l’eroe leggendario è colui che fonda qualche cosa: il fondatore di una nuova epoca, di una nuova religione, di una nuova città, di un nuovo modo di vita. Per trovare qualcosa di nuovo, si deve abbandonare il vecchio e andare alla ricerca dell’idea seminale, un’idea germinale che avrà il potere di far nascere il nuovo.
I fondatori di tutte le religioni hanno intrapreso questa ricerca. Buddha si ritirò in solitudine e quindi rimase a sedere sotto l’albero della conoscenza immortale, dove ricevette l’illuminazione che ha rischiarato l’Asia intera per 2500 anni. Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni Battista, Gesù andò nel deserto per quaranta giorni: e fu da quel deserto che egli tornò con il suo messaggio. Mosé salì in cima alla montagna per poi discendere con le tavole della legge. Poi abbiamo l’eroe fondatore di una nuova città: quasi tutte le antiche città greche furono fondate da eroi che partirono alla “ricerca” e vissero avventure sorprendenti che li portarono a fondare una città. Possiamo anche dire che il fondatore di una vita, la tua o la mia, se la viviamo come nostra, invece di imitare quella di qualcun altro, proviene comunque dalla ricerca.
[…] Le fiabe servono a divertire e molte sono a lieto fine, ma prima di concludersi presentano tipici motivi mitologici: il protagonista si trova in una situazione davvero difficile e sente una voce o avverte una presenza che gli viene in aiuto. Le fiabe sono destinate ai bambini. Molto spesso trattano di una ragazza che non ha voglia di diventare donna, che di fronte a questo momento di trasformazione si fa recalcitrante. Così va a dormire, fino all’arrivo di un principe che, superati mille ostacoli, le dà motivo di credere che dopotutto diventare donna non è poi così male. Molte favole dei fratelli Grimm presentano una ragazza che non vuole più crescere.
I rituali delle cerimonie primitive di iniziazione erano tutti fondati nel mito e riguardavano l’uccisione dell’io infantile e la nascita dell’adulto, sia nel caso di un ragazzo, sia in quello di una ragazza. La cosa è più difficile per il ragazzo che per la ragazza, perché nel caso della ragazza è la vita a prendere il sopravvento. La ragazza diventa una donna, che lo voglio o no, mentre il ragazzo deve voler diventare uomo. Con l’arrivo delle mestruazioni la ragazza diventa donna. L’altro passaggio di cui deve prendere coscienza è la gravidanza, la maternità. Il ragazzo deve per prima cosa recidere i legami con la madre e trovare in se stesso l’energia per crescere. Questo è ciò che dice il mito: “Giovane, vai alla ricerca di tuo padre”. Nell’Odissea Telemaco vive con la madre. Quando compie vent’anni è Atena a dirgli: “Vai alla ricerca di tuo padre”. È il tema che attraversa tutte queste storie. Talvolta si tratta del padre mistico, altre volte invece, come nell’Odissea, del padre naturale.
La fiaba è il mito del bambino. Ogni fase della vita ha i suoi miti. Quando cresci hai bisogno di una mitologia più solida. Naturalmente tutta la storia della crocefissione, che è un’immagine fondamentale nella tradizione cristiana, parla del manifestarsi dell’eternità nell’ambito dello spazio e del tempo, dove le cose sono smembrate. Ma parla anche del passaggio, dalla dimensione spazio-temporale a quella della vita eterna. Crocifiggiamo i nostri corpi temporali e terrestri, lasciamo che siano fatti a pezzi, e attraverso questo smembramento, entriamo nella sfera spirituale che trascende tutte le pene della terra. Esiste un tipo di crocefisso noto come “Cristo trionfante” nel quale Cristo non ha il capo reclinato e gocciolante di sangue, bensì dritto e con gli occhi aperti, come se fosse arrivato volontariamente alla crocefissione. Sant’Agostino ha scritto da qualche parte che Cristo è andato alla croce come lo sposo va incontro alla sua sposa.

Da: Joseph Campbell, Il potere del mito. Guanda, 1988

domenica 24 febbraio 2008

Il cambiamento, questo nemico. Storie di liminarità e riti di passaggio.

Nel suo libro In Patagonia, Bruce Chatwin ci regala un’immagine del cambiamento estremamente efficace. Racconta infatti che, le popolazioni locali, per descrivere il cambiamento fanno riferimento al momento in cui il granchio cambia guscio: affinché si formi quello nuovo, l’animale deve perdere il vecchio e rimane per un certo periodo completamente vulnerabile.
E’ quello stadio che l’antropologo tedesco (naturalizzato francese) Arnold van Gennep ha definito liminare. Nel suo libro Riti di passaggio, pubblicato nel 1909 (il cambiamento non è tema di interesse solo per i nostri tempi ;-), van Gennep parla del cambiamento come stadio della vita caratterizzato da tre momenti: una fase preliminare, in cui il cambiamento non ha ancora avuto corso ma si sta preparando; la fase liminare, in cui il cambiamento si attiva; la fase postliminare in cui il cambiamento è avvenuto e ci si deve riadeguare ad una nuova normalità, rientrando negli “schemi” sociali.
Ogni fase ha una sua specificità, quella centrale è la più delicata. Per esprimerci usando un gergo proprio della psicologia popolare, è il momento della vita in cui non si è “né carne, né pesce”. E’quanto sperimentano gli adolescenti, per fare un esempio concreto, che non sono più ragazzi (e ai quali i genitori e gli insegnanti richiedono atteggiamenti e comportamenti consoni a giovani maturi raziocinanti e responsabili), ma di fatto non sono ancora adulti (e quindi sono assoggettati a regole spesso non discutibili, al “finché vivrai sotto questo tetto…”, ad una libertà talmente condizionata e controllata da sembrare una prigione: i bambini ne hanno di più!). Altro momento della vita oggi fortemente conflittuale è quello del pensionamento: persone ancora giovani e capaci di grande produttività che si sentono rifiutate dal mondo del lavoro (spesso in realtà ne son felici, anche comprensibilmente) e sono quindi buttate senza cautela nel grande calderone dell’anzianità, che nello stereotipo comune è fatta ancora di pannoloni, bava alla bocca, dipendenza completa e smemoratezza, ma in realtà (soprattutto nella sua prima parte) è fatta di energia-tempo libero-desiderio di appartenenza talora incapaci di trovare applicazione.
La paura che spesso accompagna il cambiamento e talora ci attanaglia impedendoci di muoverci, è certo legata a doppio filo alla vulnerabilità di questa fase di liminarità. Tutto può accadere, nemmeno la nostra identità è certa, non vi sono sicurezze e ci vuole molta pazienza, equilibrio psicologico ed autoironia per capire che tutto cambia perché nulla cambi.
Van Gennep aveva puntato la sua attenzione sull’importanza dei riti di passaggio delle società non civilizzate da lui analizzate. Si trattava di rituali che – socialmente definiti e condivisi – aiutavano le persone nei momenti di cambiamento presentando “cornici” di stabilità formale, azioni e cerimonie collettive per impedire al singolo individuo di perdersi, sottolineando come il cambiamento è proprio di certi momenti della vita, solo un ponte da attraversare, ben rodato dai passi di tutti quelli che l’hanno già solcato. Così la nascita, l’iniziazione sessuale, sposarsi diventano in quelle comunità momenti da sancire e festeggiare uniti. Non momenti di divisione, bensì di aggregazione e di riaffermazione di appartenenza. Le società cosiddette primitive lo erano davvero tanto?

sabato 23 febbraio 2008

Il cambiamento per Jodorowsky

E’ possibile cambiare? Secondo Alejandro Jodorowsky, regista di cinema e teatro, romanziere e sceneggiatore di fumetti, è possibile. Inutile però rivolgersi ai maghi del lettino, cultori di Freud e dell’inconscio. La cura della parola è limitata ed insufficiente per cambiare. L’unico modo per riuscirci è diventare attivi, protagonisti della propria vita, darsi da fare. Solo in questo modo si riesce a spezzare l’equilibrio, immobile e spesso stagnante, della nostra mente e del nostro corpo.
Nel suo libro Psicomagia. Una terapia panica, pubblicato per la prima volta nel 1995 (traduzione italiana di Feltrinelli, 1997), Jodorowski – eclettico cileno di origine russa che ha scelto di vivere in Francia – ci introduce alla “psicomagia” una terapia che lo stesso autore definisce “singolare” ed alla quale è pervenuto passando per “l’atto poetico, l’atto teatrale, l’atto onirico e l’atto magico”. La impara da Pachita, una donna messicana di ottant’anni con la fama di guaritrice, capace di attirare tremila persone al giorno, di operare nel suo salotto (senza anestesia, strumenti idonei, conoscenze mediche di alcun tipo), di guarire mali giudicati incurabili dalla medicina tradizionale.
Se vi era trucco nel suo operato, Jodorowski non è riuscito a capirlo, pur essendo stato a lungo suo assistente. Dice invece che, ciò in cui certamente Pachita eccelleva, erano le sue conoscenze psicologiche. Jodorowski scrive: “Da lei ho imparato a trattare con le persone. Grazie a lei ho capito che tutti, o quasi tutti, siamo bambini, a volte adolescenti… Pachita sapeva che in ogni adulto, persino in quello più sicuro di sé, dorme un bambino desideroso di amore, e che il contatto fisico è il più efficace di qualsiasi parola per stabilire una relazione di fiducia e rendere il soggetto disponibile a ricevere”. Un esempio di queste sue capacità era chiedere al paziente quale fosse il prezzo che era disposto a pagare per cambiare o per guarire. Lo faceva spesso implicitamente, per far capire all'individuo quanto davvero fosse importante il cambiamento o qualcosa a cui si aspira (noi talora ci innamoriamo di un oggetto o di desiderio a tal punto da scordarcene il motivo e quindi il reale valore). Ad un giovane ragazzo sul punto di suicidarsi perché incapace di accettare la calvizie imminente, Pachita somministrò una cura che prevedeva di orinare su escrementi di topo ed applicare sulla testa questa miscela per un mese. Il ragazzo si procurò gli escrementi, vi orinò sopra, ma prima di infilarci dentro la testa, comprese che in fondo i capelli non erano per lui così importanti. Per capirlo, aveva dovuto confrontarsi con l’assurdità di quel compito: non sarebbe bastata la parola a convincerlo che il suo era un desiderio in fondo futile.
La psicomagia lavora contando sulla complice suggestionabilità della mente umana. Come ci è stato insegnato da più parti, se immaginiamo intensamente il sapore e il profumo di un limone, il nostro cervello non si rende conto che il limone non c’è e che si tratta solo di una visualizzazione ben riuscita. Analogamente, quando si finge un’operazione, il corpo umano reagisce come se fosse sottoposto ad un intervento autentico. “Se ti comunico che ti aprirò il ventre per estirparti un pezzo di fegato, se ti obbligo a sdraiarti su un tavolo e riproduco esattamente i suoni, gli odori e le manipolazioni, se senti il coltello sulla pelle, se vedi uscire il sangue, se hai la sensazione che le mie mani si rigirino nelle tue viscere ed estraggano qualcosa, sarai operato”. E’ il linguaggio simbolico che il corpo umano accetta in modo diretto ed ingenuo. Per Pachita e per la psicomagia (come per la nostra mente, che ce ne rendiamo conto oppure no), tutto ha un senso:il mondo è un “bosco di simboli a interazione costante”. Il mago, lo stregone, lo sciamano vedono in azione energie che animano un mondo in cui tutto è vivo, tutto in interrelazione, fatto di forze alleate e di nemici, nulla è neutrale, nulla si distrugge-nasce-muore, ma tutto si può trasferire, sapendolo fare, tanto il bene quanto il male.
Pachita è morta, ma la sua fama è mondiale grazie al libro di Jodorowski. Che non sa se credere alla magia, ma in fondo cosa significa credere? I benefici e l’efficacia della psicomagia sembrano riconosciuti dai molti che l’hanno vista praticare su di sé. Forse si tratta solo di un gioco collettivo, un dramma in scena in cui offriamo al nostro corpo la possibilità di auto-guarirsi. Basta un atto di fede assoluto e sincero, tanta immaginazione o disperazione, una dose di fortuna e un pizzico di magia.

Io vivo nella Possibilità

Io vivo nella Possibilità,
Una casa più bella della prosa,
Di finestre più adorna
E più superba nelle sue porte.

Ha stanze simili a cedri
Impenetrabili allo sguardo
E per tetto la volta
Perenne del cielo.

L’allietano visite dolcissime.
E la mia vita è questa:
Allargare le mie esili mani
Per accogliervi il Paradiso.

Emily Dickinson

Una favola etiope sul cambiamento

Una donna sposa un vedovo con un figlio ancora bambino, molto addolorato per la morte della sua mamma. La donna, commossa dalla pena del bambino, nel giorno del suo matrimonio promette a se stessa: “Sarò io una buona mamma per lui, così il suo dolore avrà fine”.
E da quel giorno decide di impiegare tutte le sue energie per conquistarsi l’amore del bambino. Quando torna nella capanna per i pasti gli prepara i cibi migliori che sappia cucinare, ma lui li allontana con un gesto stizzito: “ Quello che cucinava la mia mamma sì che era buono; questa roba a me non piace, mi fa proprio schifo!”.
Quando la mattina esce per andare a scuola o a giocare con gli altri bambini, gli fa trovare i suoi abiti in ordine, lavati e rammendati durante la notte, ma lui ogni sera torna nella capanna con gli abiti sporchi e strappati, come se lo facesse di proposito. Quando tenta di dargli un bacio sulla guancia, lui se la pulisce arrabbiato col dorso della mano, come se fosse la maggiore offesa che possa ricevere. Insomma, per quanto la donna si sforzi di conquistare il bambino e di consolare il suo dolore, che le fa così male vedere sempre davanti agli occhi, giorno dopo giorno, nessun tentativo le riesce, anzi naufraga miseramente nel fallimento. Alla fine, disperata e piangente, la donna decide di andare a consultare lo stregone del villaggio.
“Preparami una magia per conquistare l’amore del mio nuovo bambino! Te la pagherò a qualsiasi prezzo” lo implora. “Va bene” le risponde lo stregone dopo aver pensato un po’ “te la preparerò. Però per farla mi servono due baffi del leone più feroce che stia nella foresta! Quelli me li devi portare tu!”
“E come faccio a procurarmi i baffi del leone?” ribatte la donna spaventata e scoraggiata. “Lo sai benissimo anche tu che nessuno si può avvicinare al suo territorio”.
“Mi spiace” risponde lo stregone. “Ma se vuoi che io ti prepari la magia, tu mi devi proprio portare quei baffi, altrimenti non potrà avere nessun effetto!”
“Oh, povera me” si dice la donna, ancora più scoraggiata, e se ne torna piangente più di prima nella sua capanna. Ma durante la notte continua a pensare ed è tale il suo desiderio di conquistare l’affetto del bambino che alla fine prende la grande decisione di provare a conquistare anche i baffi del leone.
Il giorno seguente si procura un gran vassoio di carne, di quella preferita dagli animali selvatici, e lo porta nella foresta, al confine estremo del territorio del leone, poi lo deposita per terra e se ne va. Il giorno seguente prende un altro gran vassoio di carne e lo porta di nuovo nella foresta, ma questa volta lo lascia qualche passo più avanti, già nel territorio del leone. Il terzo giorno lo deposita ancora qualche passo più avanti e lo stesso fa anche il quarto e il quinto e il sesto giorno e…e… il ventesimo, il cinquantesimo, il centesimo giorno e così via. E così, di passo in passo, trascorrono prima i giorni e poi anche i mesi e la donna col suo vassoio di carne avanza sempre più nel territorio del leone, fino a quando lui comincia, con grande terrore, a vedere la tana e poi anche lui che si è ormai abituato a lei e al suo vassoio di carne e li aspetta da lontano. E così, a poco a poco, ecco che arriva finalmente anche il giorno che la donna, spaventatissima ma determinata, depone direttamente il vassoio di carne davanti al leone che comincia tranquillamente a mangiare. E allora, con una mossa furtiva, lei gli stacca due baffi, col cuore che le galoppa nel petto, ma il leone, preso dal piacere del pasto, non se ne accorge nemmeno, con tutti i baffi che ha. Allora la donna se li stringe felice al cuore, riattraversa correndo la foresta e va dritta dallo stregone: “Ecco qua, questi sono i due baffi del leone! Adesso preparami finalmente la magia per conquistare il mio nuovo bambino”.
Lo stregone la guarda a lungo in silenzio e poi le dice: “Mi spiace, ma quello che tu mi chiedi non lo posso fare. Non bastano i baffi di un leone per conquistare un figlio”.
“Ma tu me l’avevi promesso” singhiozza la donna disperata “e io ho rischiato la vita per andare a prenderli! Che cos’altro può fare una povera donna per conquistare l’affetto del suo bambino?”
“Questo non lo so io, lo sai già tu. Sai perché non ti posso preparare la magia? – le rispose allora lo stregone. “Perché non è più nelle mie mani, ormai ce l’hai tu nelle tue. E la magia è semplicemente questa: devi fare col tuo bambino esattamente quello che hai fatto col leone!”.

(citata in P.-C. Racamier e S. Tacconi, Il lavoro incerto, ovvero la psicodinamica del processo di crisi, Tirrenia, Ed. del Cerro, 1986 e in A. Marcoli, Passaggi di vita. Le crisi che spingono a crescere, Mondadori, 2003: due libri da leggere!)

Non ci può essere un tutto dato, ma solo un pulviscolo di possibilità...

Il brano che segue è tratto dall’Appendice “Cominciare e finire” alle Lezioni Americane di Calvino, a mio giudizio uno dei libri più mirabili del secolo scorso, da leggere e rileggere all’infinito, perché sempre capace di stimoli nuovi, come solo i grandi libri sanno fare. Qualsiasi commento sarebbe superfluo e fuori luogo. Solo un suggerimento: comperatevi il libro e leggetelo, leggetelo, leggetelo. Lascio la parola a Calvino:

[…] Ogni volta l’inizio è questo momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore l’allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare questa sera; per il poeta l’allontanare da sé un sentimento del mondo indifferenziato per isolare e connettere un accordo di parole in coincidenza con una sensazione o un pensiero. L’inizio è anche l’ingresso in un mondo completamente diverso….
[…] Forse è questa ansia per il problema del cominciare e del finire che ha fatto di me più uno scrittore di short-stories che di romanzi, quasi non riuscissi mai a convincermi che il mondo ipotizzato dalla mia narrazione è un mondo a se stante, autonomo, autosufficiente, in cui ci si può installare definitamente o almeno per tempi lunghi. Invece mi prende continuamente il bisogno di prenderlo dal di fuori, questo mondo ipotetico, come uno dei tanti mondi possibili, un’isola in un arcipelago, un corpo celeste in una galassia. Il mio problema potrebbe essere enunciato così: è possibile raccontare una storia al cospetto dell’universo? Come è possibile isolare una storia singolare se essa implica altre storie che la attraversano e la “condizionano” e queste altre ancora, fino a estendersi all’intero universo? E se l’universo non può essere contenuto in una storia, come si può da questa storia impossibile staccare delle storie che abbiano un senso compiuto?
[…] Non ci può essere un tutto dato, attuale, presente, ma solo un pulviscolo di possibilità che si aggregano e si disgregano. L’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice d’entropia, ma all’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva. L’opera letteraria è una di queste minime porzioni in cui l’universo si cristallizza in una forma, in cui acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in un’immobilità mortale, ma vivente come un organismo”.

venerdì 22 febbraio 2008

Dal bruco alla farfalla: storia di un cambiamento.


Talvolta il cambiamento non è una scelta, ma un evento che investe la nostra esistenza e la stravolge. Capita a Jean Dominique Bauby, quarantatrenne redattore capo di uno dei principali mensili di moda del mondo (Elle France), che viene colpito da un ictus e nello spazio di un minuto si trova bloccato nel suo corpo a causa di una terribile quanto rara blocked-in syndrome. Di tre sole cose riesce a mantenere il controllo: l’occhio sinistro, la memoria e la fantasia. Gli bastano per scrivere una biografia intensa dalla quale Julian Schnabel ha tratto Lo scafandro e la farfalla, un capolavoro che ha vinto il Golden Globe (miglior film straniero e miglior regia) e il Festival di Cannes (miglior regia).

Il merito principale del film di Schnabel è di esser riuscito a trattare questa storia senza cadere in sentimentalismi e senza trasformare la vittima in eroe dei tempi moderni. Non c’è ricerca di verità o del profondo senso della vita. Numerose soggettive ci invitano a metterci al posto del protagonista, con il suo sguardo monoculare non sempre a fuoco e il suo monologo interiore. Ironia, memoria ed immaginazione non cambiano la realtà, ma spengono le nostre istanze di pietismo e forse persino le nostre paure. Il corpo immobile, bloccato in uno scafandro, coesiste con la farfalla, la fantasia e la lucidità di un uomo che raccontando la propria storia ricuce le sue identità di uomo, padre, figlio. Jean-Do e Julian Schnabel danno forma e colore a ciò che Lao-Tze insegnava: per tutto il mondo è nascita di farfalla, quello che per il bruco è la fine di tutto. Il cambiamento più grande, forse, è accettare questa semplice legge della vita.

giovedì 21 febbraio 2008

Cambiamento e sogno

Avete incontrato persone che, ad un certo punto della loro vita, affrontano un bilancio e arrivano alla conclusione che non sono affatto soddisfatti valutando le possibilità di un cambiamento che potrebbe anche essere radicale?
Persone che “nel mezzo di cammin" della loro vita decidono di inseguire il loro sogno, lasciato silente in un cassetto, a lungo accarezzato, senza mai perdere la speranza di realizzarlo.
Persone che cambiano lavoro, stile di vita, relazioni sociali, credenze, persone che si attivano per concretizzare il loro sogno, ad esempio, quello di una conoscenza tanto desiderata in età giovanile, ma materialmente impossibile da coltivare in quella fase della loro vita, che hanno il coraggio o l’impudenza (dipende dai punti di vista) di tornare sui banchi dell’università e rimettersi in gioco, a dispetto delle convenzioni, dell’età, degli stereotipi.
Altre persone che coltivano per anni il desiderio di compiere un’impresa o realizzare un progetto in ambito socioculturale e finalmente trovano una combinazione di eventi favorevole insieme ad una dose di coraggio e di rischio indispensabili per raggiungere l’obiettivo.
Il cambiamento in loro assume la dimensione della vitalità, della consapevolezza di valore e competenza che finalmente potranno essere espresse, assume la dimensione della conquista, abbinata a quel piacere ineguagliabile del gusto di una meritata vittoria.
Se conoscete qualcuna di queste persone fortunate e coraggiose lasciatevi contagiare dalla loro vitalità, trasformate un eventuale sentimento di invidia in intenzione ad agire, ad impegnarvi in prima persona per raggiungere la vostra personalissima meta.
Condividete con noi le vostre speranze, i vostri sogni, forse... stanno già per realizzarsi.

lunedì 18 febbraio 2008

Cambiamento e società

Il cambiamento costituisce il fondamento della dinamica sociale: la società non è mai stata considerata statica, subendo trasformazioni che si susseguono continuamente. Può trattarsi di trasformazioni lente, graduali, quasi impercettibili oppure veloci, scioccanti, sconvolgenti, imprevedibili, implacabili, onnipresenti. Le trasformazioni possono essere molto vaste in dimensione ed intensità, di breve o di lungo termine, con effetti di piccola e grande scala; operano contemporaneamente a livello locale e globale (Pasmore, 1994).
Possiamo definire il cambiamento come un processo continuo che si basa sul saggio uso delle risorse disponibili; prende forma e consistenza nel momento stesso in cui si attua; prevede la prefigurazione del futuro e si attua con forte flessibilità di modelli, attraverso la partecipazione attiva di tutti i soggetti e le componenti coinvolte nella situazione e nel sistema di riferimento.
Molto più semplicemente per cambiare occorre agire, intervenire, modificare una situazione che non ci soddisfa, in questo senso è forte la componente dinamica, interattiva che implica come condizione di base l’essere e il sentirsi vitali.

domenica 17 febbraio 2008

E' possibile cambiare?

Quanti di voi saranno d'accordo sul titolo di questo blog? Per molti, infatti, cambiare non è possibile. O meglio: nella vita si cambia, peggiorando solo alcune caratteristiche di base. Ma la vita è cambiamento. Dalla nascita alla morte, ogni fase della vita comporta adeguamenti, modifiche, assestamenti e cambiamenti. Il cambiamento è l'essenza stessa della vita: già a livello sinaptico, il cambiamento dell'assetto sinaptico è il segnale di inizio della vita e di qualsiasi azione o pensiero.
Ma cambiare cosa significa? E soprattutto: come si può cambiare, cosa ci aiuta a farlo e cosa ci impedisce di farlo, anche se è la cosa che desideriamo e di cui abbiamo più bisogno? Come diceva il grande Battisti: lo scopriremo soltanto vivendo.... insieme a voi, su questo blog.