martedì 15 aprile 2008

Il potere del colore.

Il giallo è il simbolo della mente e dell’intelligenza. Rappresenta la forza del pensiero e stimola l’attività mentale.
È il colore del distacco e può aiutarci a prendere le distanze da pensieri, sensazioni e abitudini che ci ossessionano. Può rivelarsi estremamente efficace se usato assieme a un supporto psicologico in quanto permette di portare alla luce le debolezze e di individuare i problemi profondi.
I raggi gialli trasportano correnti magnetiche positive che ispirano e stimolano, rafforzano i nervi e aumentano l’elasticità mentale. Questo colore attiva i nervi motori dell’organismo generando energia muscolare. La carenza di energia derivante dalla mancanza di questo colore in una parte del corpo può manifestarsi sotto forma di paralisi parziale o totale. Di conseguenza, il giallo è un colore ideale per curare questo tipo di problemi.
Per quanto riguarda la pelle, il giallo ne migliora la struttura, deterge e guarisce le cicatrici e altri disturbi quali l’eczema. Viene inoltre utilizzato per la cura dei reumatismi e delle artriti perché aiuta a sciogliere i depositi calcarei che si formano nelle articolazioni.

da: Pauline Wills, La terapia dei colori, Mondadori, 1993
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/bonnieshulman/654205425/)

mercoledì 9 aprile 2008

YouTube - Bobby McFerrin - Ave Maria

YouTube - Bobby McFerrin - Ave Maria


Un J.S. Bach inaspettato.
Perché cambiare può significare, talvolta, guardare le stesse cose, in modo diverso.
E riscoprirle, arricchite dagli eco di evocazioni e memorie che tornano a trovarci, con abiti nuovi.

ps: per chi non parla inglese, il brano musicale vero e proprio inizia a 02:18 minuti dall'inizio (vi perderete alcune batture di Bobby McFerrin, che tra le tante altre cose è anche spiritoso... madre natura è stata un po' più generosa con taluni, non credete? ;-)

Sulla malattia, i numeri e le medie.

Le parole dell'ultimo post di Isa, relativo alla malattia, mi hanno colpito.
E' vero, la malattia riesce a cambiare completamente il nostro rapporto con il corpo e con la vita. Ed è altresì vero che è più difficile per lo specialista, il medico o chiunque ne sappia di medicina, accettare la malattia dentro di sé, conoscendone la possibile evoluzione. E' più difficile sperare e ricordarsi che, se anche la probabilità statistica è contro di noi, noi non siamo una media e, soprattutto, la
media è sempre espressione di una tendenza centrale, non riguarda la totalità dei casi. I numeri talora possono essere usati contro di noi, da chi non li sa usare oppure dal nostro cervello, che può focalizzarsi su una parte dell'insieme di possibilità.

Lascio esprimere questo concetto a Stephen Jay Gould, uno dei più prestigiosi biologi evoluzionisti. Questo difficile rapporto tra malattia e numeri, lui l'ha vissuto sulla sua pelle e sa dirlo molto meglio di quanto non saprei mai fare io.

Una carezza virtuale, con infinito affetto, a tutte le persone che in questo momento stanno coltivando dentro di sé il dubbio della malattia, o il suo seme. E una carezza anche alla mia sorellina, matematica, che vorrà perdonarmi questo "attacco" (che non è contro i numeri, ma contro i numeranti e i terroristi dei numeri).

Nel 1982 a quarant’anni mi è stato diagnosticato un mesotelioma addominale, una forma di tumore rara e “inevitabilmente fatale” (per citare tutti i giudizi ufficiali del tempo)… Dopo lo shock iniziale, non appena il mio cervello riprese a funzionare, iniziai a riflettere sui dati e sul verdetto cruciale di “otto mesi di mortalità mediana”. Impostai il mio ragionamento da biologo evoluzionista.
Cosa significano “otto mesi di mortalità mediana”? Eccoci all’errore filosofico che ha motivato questo libro: la maggior parte della gente vede le medie come realtà fondamentali e la variazione come uno strumento per calcolare una misura significativa di tendenza principale. In questo mondo platonico, “otto mesi di mortalità mediana” può soltanto significare: “probabilmente tra otto mesi sarà morto”, forse la diagnosi più raggelante che si possa mai leggere.
Commettiamo un grave errore se consideriamo una misura della tendenza principale come il valore più probabile per ogni singolo individuo; eppure molte persone lo commettono per tutta la vita. La tendenza principale è un’astrazione, la variazione è la realtà. Innanzitutto, dobbiamo chiederci cosa significhi mortalità “mediana”... io non sono una misura della tendenza principale, sia essa la media o la mediana. Sono un singolo essere umano con il mesotelioma, e pretendo una valutazione migliore delle mie possibilità, perché ho delle decisioni personali da prendere, e i miei impegni non possono essere stabiliti da medie astratte. Ho bisogno di porre me stesso nella regione più probabile di una distribuzione di variazione che sia basata sui particolari del mio caso personale; non devo semplicemente presumere che il mio destino corrisponderà a qualche misura della tendenza centrale...

(...) Sono stato curato e guarito da medici coraggiosi, i quali hanno usato un metodo sperimentale che adesso può salvare altri ammalati quando scoprano la malattia in uno stadio precoce

(...) è stata fatta molta strada dai giorni oscuri in cui le diagnosi di tumore venivano scrupolosamente nascoste ai pazienti, sia per la deplorevole ragione che molti medici consideravano il sotterfugio come il modo migliore per mantenere il controllo, sia per il pietoso (e il malaccorto) presupposto che la maggior parte della gente non riuscisse a tollerare una notizia che era un ultimatum e una sentenza di morte. È impossibile però superare gli ostacoli con l’ignoranza: pensiamo a che contributo avrebbe potuto dare Franklin D. Roosevelt alla nostra concezione dell’handicap se, invece di nascondere con la tanta abilità la sua paralisi, avesse dichiarato apertamente che non governava certo con le gambe...


Stephen Jay Gould, Gli alberi non crescono fino al cielo, Mondadori
Foto bambino: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/exitdoors/2383203300/)

domenica 6 aprile 2008

Frank Gehry. Il creatore di sogni.

Ci sono eventi, momenti, incontri che possono cambiare il corso della nostra vita. Non mi sto riferendo agli eventi drammatici che ci investono spezzando tutto quello che trovano, né dei momenti epici di passaggio (matrimonio, laurea, nascita dei figli, pensionamento). Penso piuttosto a quegli incontri occasionali che il caso o il destino collocano sulla nostra strada con tanta indifferenza che ci mettiamo anni anche solo per rendercene conto.

Metti che a sedici anni vai ad una conferenza, trascinato da una forza che non sai denominare né capire: chiamala noia, voglia di uscir di casa o curiosità. Non sai chi parlerà, né di cosa. Ti trovi davanti un vecchio signore che ti colpisce per i suoi capelli bianchi e per i discorsi che fa. Parla di una disciplina di cui non sai nulla, l’architettura, ma lo fa con una passione assoluta, coinvolgente e contagiosa. Non ci pensi per anni. Poi, improvvisamente, ti svegli e ti rendi conto che è quello, proprio quello, che vorresti fare per tutta la vita.

Non è la trama di un film, ma la storia di Frank Gehry, architetto americano tra i più osannati e i più criticati. È autore di decine di progetti dal Guggenheim Museum di Bilbao a piccoli complementi d’arredo (soprattutto lampade), da sculture a forma di pesce a collezioni di gioielli disegnate per Tiffany. Non è stata semplice, la sua vita. Ristrettezze economiche quand’era ragazzo, appena inizia l’università un docente che gli dice, con candore paternalistico, “Frank, cambia strada, l’architettura proprio non fa per te”, un fallimento matrimoniale, un’attività professionale (nel suo ramo) in cui deve fare cose che non lo convincono. Ma lui la lezione di Alvar Aalto (il vecchietto dai capelli bianchi) l’ha incamerata bene. Seguire la propria passione e fare le cose come le vediamo con gli occhi della mente e della fantasia, plasmando la realtà in modo da creare lo spazio per i nostri mondi possibili: questo dà senso al lavoro, all’arte e forse anche alla vita.

Sydney Pollack, nel documentario che ha dedicato alla vita di Gehry, lo ha chiamato “Creatore di sogni”. Uno che non si arrende mai: non davanti alle parole dell’insegnante che vuole fargli cambiare strada, non davanti ai materiali che sembrano incompatibili con la forma che chiede di essere realizzata, e nemmeno davanti alle soluzioni troppo semplici. Quando sono troppo semplici? La sua risposta ha delle evocazioni pascaliane: è troppo semplice quando non soffri almeno un po’ per arrivarci. È un percorso che va dalla semplicità alla complessità e poi torna indietro, un passaggio continuo dalla mente alla carta, da questa ai modellini tridimensionali e poi di nuovo alla carta, alla mente, in un continuo circolo virtuoso. Di modellini non ne fa mai uno solo, ma svariati e in scale diverse: è troppo facile innamorarsi di una forma in una dimensione, per capirla bisogna vederla in scale diverse, solo allora riesci a vedere quello che hai di fronte e ti stacchi un po’ dall’immagine che hai in testa.

Cosa fare, dunque, quando la vita si oppone ai nostri progetti, quando siamo così confusi da non ricordarci neanche quali siano i nostri progetti? Andare avanti, darsi da fare, confrontarsi con le critiche senza assimilarle troppo, cercare di guardare i problemi con occhi nuovi, diversi. Stupirsi sempre della soluzione che arriva, quasi magicamente, e non disconoscerla quando l’abbiamo messa in pratica. Costruire un edificio è un processo titanico: ci vuole così tanto tempo che, quando è finito, sei talmente stanco da vederne ormai solo i difetti. Ma, come dice Gehry, basta aspettare che ci entri la luce, e tutto prende vita.

giovedì 3 aprile 2008

Quanto più in fondo vi scava il dolore, tanta più gioia potrete contenere.

Allora una donna domandò: Parlaci della Gioia e del Dolore.
Ed egli rispose:
La vostra gioia è il vostro dolore senza maschera.
E il pozzo da cui scaturisce il vostro riso, sovente fu colmo di lacrime.
Come può essere altrimenti?

Quanto più in fondo vi scava il dolore, tanta più gioia voi potrete contenere.
La coppa che contiene il vostro vino non è la stessa bruciata al forno del vasaio?
E non è forse il liuto che accarezza il vostro spirito, il legno svuotato dal coltello?

Quando siete contenti, guardate in fondo al cuore e saprete che ieri avete sofferto per quello che oggi vi rende felici.
E quando siete tristi, guardatevi il cuore e v’accorgerete di piangere per quello che ieri fu il vostro diletto.
Tra voi, alcuni dicono: “La gioia è più grande del dolore”, e dicono altri “Il dolore è più grande”.
Ma io vi dico che sono inseparabili.
Essi giungono insieme, e se l’una vi siede accanto alla mensa, ricordatevi che l’altro sul vostro letto dorme.

In verità siete bilance che oscillano tra la gioia e il dolore.
Soltanto quando siete vuoti, voi siete equilibrati e fermi.
Se per pesare l’oro e l’argento vi solleva il tesoriere, gioia e dolore dovranno a turno alzarsi o ricadere.

Gibral Kahlil Gibran, Il Profeta, Ugo Guanda Editore, 1981

mercoledì 2 aprile 2008

Quando la malattia minaccia la vita

Ciascuno di noi nell’arco della propria esistenza, prima o poi, dovrà fare i conti con la malattia e la modalità con cui affronterà questo attacco all’integrità del proprio mente-corpo dipenderà da molti fattori, dall’età, dal genere, dai tratti di personalità (ottimista/pessimista), dalla condizione economica, dalla costellazione familiare e i legami parentali, dall’integrazione nel tessuto sociale, dal credo religioso, dai valori riconosciuti.
Con la malattia abbiamo un approccio su un duplice livello,interiore, psicologico ed esteriore, sociale.

La malattia spezza l’equilibrio fra risorse interne e richieste esterne, costringendoci a prendere consapevolezza del nostro essere finito, materiale, organico, che insidia le nostre aspirazioni spirituali, mistiche, filosofiche di possedere quella scintilla d’infinito che ci rende unici nell’universo.
La malattia ci ricorda la nostra natura transeunte, provvisoria, di passaggio su questo pianeta, in questa epoca, e ci rende improvvisamente vulnerabili, fragili, ma anche furiosi, increduli, che tale rovina stia accadendo proprio a noi.

Dopo una iniziale negazione difensiva, si prende coscienza che il nostro mente-corpo ha iniziato un processo di deterioramento, e si aprono due possibilità: subire questo processo, cercando un vantaggio secondario, una maggiore attenzione a noi in quanto malati, oppure lottare per recuperare l’integrità perduta. Quale direzione prenderemo dipende dalla nostra personalità, ma anche dalla situazione contingente, ancora coesistenza di aspetti interiori ed esteriori.

Altre considerazioni sono d’obbligo per chi affronta tutti i giorni la malattia dell’Altro per professione, medici, infermieri, psicologi. In questi professionisti la complessità dei fattori in gioco è moltiplicata dal ruolo professionale e dal loro essere persone tra altre persone dolenti. Gli approcci possono essere diversi, ma in ogni caso è indispensabile un certo distacco per non vanificare la prospettiva di cura, espressa con modalità dipendenti anche da una formazione prevalentemente medica o psicologica. La vicinanza con il malato, sebbene espressa secondo modalità personalissime, può facilitare il processo di guarigione, in quanto asseconda il bisogno di accoglienza, di ascolto, di attenzione manifestato dal paziente, ma occorre competenza e cautela.

Un altra prospettiva si apre quando ad ammalarsi è un professionista della salute, con tutto il carico di competenze e conoscenze che rende le autodiagnosi insidiose e terribili, in quanto riconosciute come vere.
La cultura scientifica appresa per esercitare una professione d’aiuto sembra ritorcersi contro, diventando chiarissime le conseguenze, le possibili evoluzioni di un disturbo psico-fisico: a volte l’ignoranza permette una vita più tranquilla.

Forse ci ritroveremo a fare un bilancio della nostra esistenza fino a quel momento con i rimpianti e i rimorsi, forse ci infurieremo perché non potremo tenere fede agli impegni presi e deludere le persone che contavano su di noi.

Forse avremo l’occasione per riflettere, dopo tanto affannarsi e correre, su quali siano le priorità, i valori, le persone veramente importanti per le quali vale la pena lottare e guarire, perché hanno ancora bisogno di noi, o semplicemente ci vogliono bene.

A tutti coloro che stanno lottando con la malattia, auguro di trovare sempre la forza per opporsi ragionevolmente ad una fine prematura, senza perdere di vista il valore che, anche la malattia, come esperienza, arricchisce il nostro vissuto.

martedì 1 aprile 2008

Abbandonare la morsa del sé.

Tutta la violenza,
la paura e la sofferenza
Che esistono nel mondo
Provengono dall’attaccamento al sé.
A che ti serve questo grande,
perfido mostro?

Se non abbandoni la morsa del sé,
Non ci sarà mai fine
alla tua sofferenza.
Proprio come, se non la allontani
dalla tua mano,
Non puoi impedire a una fiamma
di bruciartela.

Se puoi risolvere il tuo problema,
che bisogno c’è di preoccuparti?
Se non puoi risolverlo,
A che serve preoccuparti?


Shantideva (maestro buddhista)