venerdì 25 luglio 2008

Tom Sawyer e il lavoro. La sottile arte della ristrutturazione!

Noi e il mondo. Noi e la vita. Una relazione spesso conflittuale. Quante volte ci troviamo a pensare che il mondo non è proprio come dovrebbe essere, che la vita è ingiusta, noi meriteremmo di più e meglio, gli altri non capiscono, ci hanno fraintesi, il nostro capo è una capra…
Se noi potessimo fare le cose come vogliamo noi, allora sì, il mondo andrebbe meglio. Dovunque: sul lavoro, nella nostra famiglia, i vicini, persino la nostra amica – quella splendida persona, in gambissima, eccezionale, che adoriamo – eppure anche lei fa sempre i soliti errori e non capisce, se solo ci ascoltasse un po’ di più sarebbe così semplice, potrebbe avere tanto di più…

Noi faremmo meglio. In un delirio di onnipotenza che ci coinvolge più o meno tutti, noi abbiamo un quadro della situazione chiaro, lineare, cristallino, soprattutto per quanto riguarda la vita degli altri. Nella nostra vita, quando le cose non vanno ed accettarle diventa impossibile (la realtà cozza troppa con la nostra consapevolezza di come le cose dovrebbero essere, per essere giuste), allora cerchiamo di cambiare: le persone, gli eventi, le cose. E in questo infinito tentativo di cambiare le cose, forse per lasciare un segno nel mondo, ci rendiamo conto che cambiare il fuori è un’impresa improba (se mai possibile) e certo non duratura. Tutte le cose ruotano e la staticità – anche se ci illudiamo di trovarla deterministicamente nelle cose e nelle persone – proprio non è di questo mondo.

Ignoriamo forse la via più semplice. Che non è l’indifferenza, la rassegnazione, la depressione in cui cadiamo spesso quando ci rendiamo conto che il mondo e le persone non sono lì per essere cambiate da noi. No. A parte l’illusione (o velleità, o aspirazione) al cambiamento del mondo, e la depressione, c’è una terza via, che è quella di cambiare noi stessi. E’ l’essenza stessa delle filosofie orientali e forse anche di quelle occidentali (alcune, per lo meno). Maturare la consapevolezza che la vita è un fiume che scorre e noi possiamo goderci l’avventura su quella nostra piccola zattera, piccole monadi in un mondo che spesso non capiamo (ma dobbiamo farlo?) e talora non riusciamo proprio ad amare, se solo ci lasciamo guidare dall’acqua ed assistiamo allo spettacolo, prendendo parte con la leggerezza possibilitista del saggio che accetta i limiti del suo operato (quanta fatica risparmiata nel non dover/voler cambiare il mondo!) e che le persone vanno amate anche con tutti i loro difetti.

Mi sembra che questo concetto sia espresso in maniera chiarissima in una citazione di Twain riportata in un libro vecchio eppure giovanissimo (e ancora disponibile in commercio), scritto da tre grandi protagonisti del mitico Mental Research Institute di Palo Alto, Watzlawick, Weakland e Fish. Buona lettura.

«È sabato pomeriggio, vacanza per tutti tranne che per Tom Sawyer che per punizione deve imbiancare trenta jarde di steccato, alto nove piedi. La vita gli sembra vuota e l’esistenza solo un pesante fardello. Non è però il lavoro che trova insopportabile, soprattutto lo tormenta l’idea che i suoi compagni gli passeranno accanto e lo prenderanno in giro perché lui deve lavorare. Ma in questo momento buio e senza speranza, spiega Mark Twain, lo illuminò un’ispirazione. Una grande, una magnifica ispirazione. Poco dopo compare un ragazzo, proprio il ragazzo ch’egli più temeva per i suoi sarcasmi».

“Ehi, vecchio, un po’ di lavori forzati, vero?”
“Oh, sei tu, Beh? Non m’ero neppure accordo che c’eri…”
“Senti, io vado a nuotare al fiume, adesso. Non ti piacerebbe venirci anche tu? Ma forse tu preferisci lavorare, vero? Ma sicuro che lo preferisci…”
Tom fissò il ragazzo per un istante, poi chiese: “Cos’è che chiami lavorare?”
“Be’, quello che fai adesso, non è un lavoro?”
Tom riprese il pennello e risposte con molta indifferenza: “Be’, in un certo senso lo è, e in un certo senso non lo è. Quello che so di positivo è che a Tom Sawyer gli piace”.
“Che storia vuoi darmi da bere? Forse che ti diverti a fare l’imbianchino?”.
Il pennello continuò imperterrito.
“Se mi diverto? Be’, non riesco a capire perché non dovrei divertirmi. Forse che uno steccato da imbiancare lo trovano tutti, ogni giorno?”
L’osservazione presentava il lavoro in una nuova visuale. Ben smise di mordicchiare la mela. Tom passò con estrema cura il pennello in su e in giù, poi si ritrasse a osservare l’effetto, diede un colpetto qui, un colpetto là, ma non pareva ancora soddisfatto. Ben osservava ogni movimento, e si interessava sempre più, si sentiva sempre più attratto da quel lavoro. Improvvisamente disse: “Senti, Tom, lasciami imbiancare un poco anche a me”.

Fonte:
Paul Watzlawick, John H. Weakland, Richard Fisch, Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi, Astrolabio, 1974
Mark Twain, Tom Sawyer Huckelberry Finn, Einaudi, Torino, 1963

Ricordiamoci di non portare in vacanza i cattivi pensieri ;-)

"Il terzo giorno, il piccolo Principe parla del pianeta infestato dai baobab. I baobab prima di diventare grandi cominciano con l’essere piccoli e se non si è diligenti ad estirparli, diventano grandi, prendono il sopravvento, mangiano il pianeta e qualsiasi possibilità di sopravviverci.
“Sul pianeta del piccolo Principe ci sono, come su tutti i pianeti, le erbe buone e quelle cattive. Di conseguenza: dei buoni semi di erbe buone e dei cattivi semi di erbe cattive. Ma i semi sono invisibili. Dormono nel segreto della terra fino a che all’uno o all’altro pigli la fantasia di risvegliarsi. Allora si stira, e sospinge da principio timidamente verso il sole un bellissimo ramoscello inoffensivo. Se si tratta di un ramoscello di ravanello o di rosaio, si può lasciarlo spuntare come vuole. Ma se si tratta di una pianta cattiva, bisogna strapparla subito, appena la si è riconosciuta. C’erano dei terribili semi sul pianeta del piccolo Principe: erano i semi del baobab. Il suolo ne era infestato. Ora, un baobab, se si arriva troppo tardi, non si riesce più a sbarazzarsene. Ingombra tutto il pianeta. Lo trapassa con le sue radici. E se il pianeta è troppo piccolo e i baobab troppo numerosi, lo fanno scoppiare.

“E’ una questione di disciplina – mi diceva più tardi il piccolo principe – quando si ha finito di lavarsi al mattino, bisogna fare con cura la pulizia del pianeta. Bisogna costringersi regolarmente a strappare i baobab appena li si distingue dai rosai ai quali assomigliano molto quando sono piccoli. È un lavoro noioso, ma molto facile”.

(…) e così dico: “Bambini! Fate attenzione ai baobab!”

Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, Bompiani, 1993

lunedì 14 luglio 2008

Che cosa mi rende unico?

Nell'agosto 2007, il professor Randy Pausch (docente di informatica presso una prestigiosa università americana e grande esperto di realtà virtuale) scopre che il cancro contro il quale stava combattendo da tempo lo condanna senza speranza. Sceglie di abbandonare l'università per stare vicino alla famiglia e concede un'ultima conferenza, un'ultima lezione, che è stata pubblicata in Italia da Rizzoli con il titolo "L'ultima lezione. La vita spiegata da un uomo che muore", una lettura raccomandabile. Traiamo da questo libro alcuni iniziali commenti di Randy.

"Che cosa mi rende unico?"
Era questa la domanda che dovevo pormi. Trovare una risposta mi avrebbe forse aiutato a capire come impostare il discorso. Seduto nella sala d'aspetto all'ospedale John Hopkins, in attesa dell'ennesimo referto medico, usavo Jay (la moglie, ndr) come cartina di tornasole per alcune mie idee.
"Il cancro non mi rende unico" le ho detto. Nessun dubbio al riguardo. Il solo tumore al pancreas viene diagnosticato ogni anno a più di 37.000 americani.
Ho riflettuto a lungo su come definirmi: insegnante, informatico, marito, padre, figlio, fratello, mentore per i miei studenti. Si tratta di ruoli cui ho sempre dato valore. Ma quali di questi mi hanno contraddistinto? Benché abbia sempre avuto un ego piuttosto sviluppato, sapevo che per questa lezione serviva qualcosa in più della semplice presunzione. Mi sono chiesto: "C'è qualcosa che solo io sono in grado di dare?"
E lì, all'improvviso, nella sala d'attesa, ho capito esattamente di cosa si trattava. Mi ha letteralmente fulminato. Qualsiasi fossero stati i miei risultati, tutto quello che avevo amato nella vita aveva origine nei sogni e negli obiettivi che avevo da bambino... e nel fatto di averli realizzati quasi tutti. La mia unicità, ho compreso in quel momento, risiedeva in tutti i sogni - alcuni significativi, altri eccentrici - che hanno caratterizzato i miei quarantasei anni di vita. Nonostante il cancro, seduto in quella sala d'aspetto, ho capito di essere davvero un uomo fortunato perché li ho realizzati. In gran parte, grazie agli insegnamenti ricevuti, strada facendo, dalle persone straordinarie che ho potuto conoscere. Se avessi raccontato la mia storia trasmettendo la passione con cui ho vissuto, allora la mia lezione avrebbe potuto aiutare anche gli altri a trovare la strada per realizzare i propri sogni."

giovedì 3 luglio 2008

Meglio essere ottimisti?

Gli ottimisti, ci dicono gli scienziati (soprattutto psicologi cognitivi e psicologi della salute), sopravvalutano la realtà. Non solo: tendono ad essere più approssimativi, meno precisi quando vengono interrogati sulle probabilità di eventi negativi, offrono valutazioni ottimistiche che sono per lo più irrealistiche. I pessimisti, per contro, sono aquile abili e matematicamente molto forti: accurati nel valutare i rischi di ogni genere di disastro che potrebbe capitare loro, dagli incidenti aerei alla probabilità di essere investiti da una macchina. Assolutamente consapevoli di tutti i rischi-pericoli-problemi, i pessimisti conoscono la realtà molto meglio degli ottimisti, che loro ritengono – a ragione – futili, leggeri e sconsiderati.

La domanda che si sono posti gli scienziati è quella che ognuno di noi dovrebbe porsi: val la pena conoscere bene la realtà? Il confronto realistico con la realtà – che gli psicologi identificano come indice di salute mentale – è davvero auspicabile, ci fa vivere meglio?

Il meglio, ovviamente, è una valutazione di carattere profondamente soggettivo. Gli scienziati per ora si sono concentrati sul quanto e risulta abbastanza chiaro che essere ottimisti, nella vita, aiuta a vivere di più. Il pessimismo è dannoso per la salute. Gli individui pessimisti affetti da malattie cardiache hanno maggiori probabilità di morire a causa di tali disturbi rispetto agli ottimisti con uguali patologie e sono più predisposti a contrarre una patologia tumorale. In uno studio condotto negli anni 40 su un campione di studenti di medicina di Harvard, un alto livello di ottimismo all’età di vent’anni faceva prevedere un ottimo stato di salute all’età di sessantacinque. Queste ricerche sono state replicate negli anni con risultati analoghi.

Al di là del regalarci una vita potenzialmente più lunga, inoltre, l’ottimismo ci dà strumenti oggettivi e misurabili durante il suo corso. Ce lo dimostra, in maniera inequivocabile, un esperimento condotto sui topi. Negli anni 80 il professor Morris, brillante ricercatore inglese diventano molto celebre proprio per questo studio, suddivise casualmente un campione di topolini bianchi in due gruppi: uno ad uno i topini vennero immersi in una vaschetta d’acqua contenente un isolotto (gruppo 1) oppure senza isolotto (gruppo 2). L'isola - laddove presente - doveva consentire ai topini di starsene tranquilli e rifocillarsi evitando di nuotare per un po'.
In una seconda fase dello studio, con gli stessi soggetti sperimentali e la stessa vaschetta, venne introdotta una modifica: l’acqua della piscina fu resa opaca con del latte. I topolini del gruppo 1, memori dell'esistenza di un'isola, pur non vedendola nuotarono in cerca della piccola oasi di pace finché non la trovarono. Quelli del gruppo 2 (che non avevano sperimentato la possibile esistenza di un'isola) nuotarono a caso senza alcuna ricerca.
Infine, nella terza fase dell’esperimento, tutti i topi – uno ad uno – furono fatti nuotare nella vasca privata dell’isolotto e vennero estratti quando erano allo stremo delle forze. Morris scoprì (tra le altre cose) che i topini che cercavano l’isolotto avevano resistito il doppio di quelli che non cercavano l’isola.

Se qualcuno avrà storto il naso sull’esperimento (cosa c’entrano i topi?), il suo valore in questo caso è dato proprio dal fatto che in gioco ci fossero esserini così “semplici”. Persino un topo quando si aspetta qualcosa, resiste il doppio di chi non si aspetta nulla. Avere un’isola (quella del tesoro o quella che non c’è) aiuta a lottare molto di più, speranzosi e fiduciosi, con un obiettivo chiaro in testa.

In conclusione, quindi, può essere che il pessimista abbia ragione e l’ottimista sia solo un ingenuo che distorce la realtà. Ma, di fatto, questa distorsione aiuta a vivere di più, meglio e a cambiare la realtà per renderla più vicina alle nostre aspettative. Il pessimista, per sua natura, non fa che incrementare la probabilità che le cose possano andar male, visto che – alla luce della sua brillante lungimiranza – sa quante poche probabilità ci sono che possa anche andar bene.

Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/juliedermansky/258863950/)

lunedì 30 giugno 2008

Se

Se riesci a conservare il controllo quando tutti
Intorno a te lo perdono e te ne fanno una colpa;
Se riesci ad aver fiducia in te quando tutti
Ne dubitano, ma anche a tener conto del dubbio;
Se riesci ad aspettare e non stancarti di aspettare,
O se mentono a tuo riguardo, a non ricambiare in menzogne,
O se ti odiano, a non lasciarti prendere dall'odio,
E tuttavia a non sembrare troppo buono e a non parlare troppo saggio;

Se riesci a sognare e a non fare del sogno il tuo padrone;
Se riesci a pensare e a non fare del pensiero il tuo scopo;
Se riesci a far fronte al Trionfo e alla Rovina
E trattare allo stesso modo quei due impostori;
Se riesci a sopportare di udire la verità che hai detto
Distorta da furfanti per ingannare gli sciocchi
O a contemplare le cose cui hai dedicato la vita, infrante,
E piegarti a ricostruirle con strumenti logori;

Se riesci a fare un mucchio di tutte le tue vincite
E rischiarle in un colpo solo a testa e croce,
E perdere e ricominciare di nuovo dal principio
E non dire una parola sulla perdita;
Se riesci a costringere cuore, tendini e nervi
A servire al tuo scopo quando sono da tempo sfiniti,
E a tener duro quando in te non resta altro
Tranne la Volontà che dice lor "Tieni duro!".

Se riesci a parlare con la folla e a conservare la tua virtù,
E a camminare con i Re senza perdere il contatto con la gente,
Se non riesce a ferirti il nemico né l'amico più caro,
Se tutti contano per te, ma nessuno troppo;
Se riesci a occupare il minuto inesorabile
Dando valore a ogni minuto che passa,
Tua è la Terra e tutto ciò che è in essa,
E - quel che è di più - sei un Uomo, figlio mio!

Rudyard Kipling

venerdì 6 giugno 2008

La mente è più grande.


La mente – è più grande del cielo –
Perché – se li metti fianco a fianco –
L’una contiene l’altro
Facilmente – e te – anche –

La mente è più profonda del mare –
Perché – se li tieni – blu contro blu –
L’una assorbirà l’altro
Come una spugna – un secchio –

La mente ha giusto il peso di Dio –
Perché – alzali – libbra su libbra –
Ed essi differiranno – semmai –
Come suono da sillaba.

Emily Dickinson, 1862

Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/valerius25/463968859/)

venerdì 30 maggio 2008

L'errore più grande? Rinunciare.

Il giorno più bello? Oggi.
L’ostacolo più grande? La paura.
La cosa più facile? Sbagliarsi.
L’errore più grande? Rinunciare.
La radice di tutti i mali? L’egoismo.
La distrazione migliore? Il lavoro.

La sconfitta peggiore? Lo scoraggiamento.
I migliori professionisti? I bambini.
Il primo bisogno? Comunicare.
La felicità più grande? Essere utili agli altri.
Il mistero più grande? La morte.

Il difetto peggiore? Il malumore.
La persona più pericolosa? Quella che mente.
Il sentimento più brutto? Il rancore.
Il regalo più bello? Il perdono.
Quello indispensabile? La famiglia.
La rotta migliore? La via giusta.
La sensazione più piacevole? La pace interiore.

L’accoglienza migliore? Il sorriso.
La miglior medicina? L’ottimismo.
La soddisfazione più grande? Il dovere compiuto.
La forza più grande? La fede.
Le persone più necessarie? I sacerdoti.
La cosa più bella del mondo? L’amore.

Da: Madre Teresa, Nel cuore del mondo, Rizzoli
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/yilud/145108152/)

martedì 20 maggio 2008

La mia vita è stata piena di terribili disgrazie. La maggior parte delle quali...

Chi mi legge da un po' avrà capito la mia filosofia: la vita è quello che è, talvolta un paradiso talaltra un inferno, raramente possiamo determinarne il corso. Però in quello che possiamo davvero determinare, cioè il nostro modo di viverla, siamo spesso dei cuccioli disarmati e disarmanti. Per dirla in altre parole: siamo dei maestri nel rovinarcela, la vita, e riusciamo a farlo in una quantità di modi diversi estremamente creativa. In questo, non siamo quasi mai pigri: ci impegnamo seriamente e dedichiamo una mole considerevole di risorse cognitive e di tempo.

Proviamo a pensare, ad esempio, alla nostra grande capacità di creare mostri e disastri. Montaigne sempre arguto soleva dire: “La mia vita è stata piena di terribili disgrazie, la maggior parte delle quali non si è mai verificata”. Focalizzazione ed immaginazione sono due importanti risorse che, lasciate alla guida della nostra vita senza controllo, possono giocarci brutti scherzi e portarci alla rovina.

Mi spiego meglio. Pensare “al peggio” è – di base – un istinto naturale utile ed adattativo: ci aiuta ad attrezzarci e a prepararci ad un’ipotesi di occorrenza rischiosa, in modo da gestirla al meglio. Quando però questo pensiero (chiamiamolo, in termini vagamente new age, negativo) si insinua nel nostro cervello e ne diventa il padrone, allora dobbiamo fermarci e riflettere. Non abbiamo la sfera di cristallo. Le cose potrebbero andare sia bene, che male. Non possono andare sempre e solo male. Il buon senso ce lo dice, e anche la vita, la statistica, la storia.

Se il nostro cervello riesce a rimandarci sempre e solo immagini di sciagure e il peggio di quello che potrebbe capitare, siamo caduti nel circolo vizioso della focalizzazione. E’ il meccanismo che induce a rappresentarsi in modo esplicito solo un sottoinsieme degli stati del mondo: solo una parte quindi delle sue numerose, forse infinite, possibilità. Senza controllo, possiamo arrivare all’assurdo – purtroppo tutt’altro che raro – in cui siamo infelici anche quando avremmo tutte le condizioni per essere felici (perché non osserviamo la realtà, ma siamo sempre lì a cullare le nostre paure e le nostre aspettative di disastro).

Il grande psicologo americano William James (fratello dello scrittore Henry, splendida famiglia quella!) scrisse a questo proposito: “Assistiamo al paradosso di un uomo che si vergogna da morire perché è il secondo pugile o vogatore del mondo. Che sia più veloce di tutti gli altri esseri al mondo tranne uno, non basta”. Pensiamoci.

Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/magomerlano/749400720/

venerdì 16 maggio 2008

Lotteria e cambiamento.

Non c’è bisogno di vincere alla lotteria per dedicarsi alle proprie passioni. Parecchi anni fa alcuni studiosi hanno studiato che cosa succede a chi vince la lotteria e a chi subisce un incidente rimanendo paralizzato. I risultati hanno stupito tutti, a partire dai ricercatori stessi. Per il buon senso, vincere alla lotteria è la miglior fortuna che ci possa capitare e rimanere paralizzati è probabilmente tra le peggiori se non la peggiore. Ebbene: questo è risultato vero poche settimane dopo l’evento. Con il passare del tempo, però, le cose sono cambiate. A qualche anno di distanza, tanto i vincitori della lotteria quanto gli sfortunati paraplegici sono tornati ad un livello di benessere o malessere soggettivo (percepito) allineato a quello che avevano prima dell’evento clou.
Che cosa significa questo? Semplicemente che una grande fortuna o una grande sfortuna può cambiare molto della nostra vita, ma non cambia noi. Il nostro atteggiamento verso la vita, il nostro ottimismo o pessimismo, il nostro temperamento caratteriale rimangono immutati persino se toccati da esperienze così sfidanti.

Gli studiosi hanno tratto da queste ricerche due conclusioni. Innanzitutto, l’infelicità è innescata da un processo di cambiamento in peggio rispetto a un precedente livello di benessere: sono i decrementi che ci fanno soffrire, non i valori assoluti. In pratica: quando ci abituiamo al cambiamento, non ci fa più soffrire o gioire. A parte questo fattore tempo, ce n’è un secondo che entra il gioco ed è quello del controllo. Siamo tanto più in pace quanto più siamo capaci di attribuire i cambiamenti in negativo a fattori esterni (che non possiamo controllare né modificare) e i cambiamenti in positivo a noi. Proprio per questo, si è cominciato a misurare il livello soggettivo di benessere come funzione della tendenza a spiegare gli eventi accaduti nel passato a cause interne o esterne. Una persona felice (o serena) pensando al proprio passato dirà che ha passato l’esame bene perché aveva studiato e che ha avuto il posto di lavoro perché se lo meritava. Una persona infelice o non serena sosterrà invece che magari l’esame è andato bene, ma avrebbe potuto andar meglio se non ci fosse stato in commissione un professore incapace, e che il lavoro l’ha avuto ma perché non c’era nessun altro di valido o perché non hanno trovato nessun altro che si accontentasse di quelle condizioni.

Rimane comunque certo che, per chiunque di noi, il neomiliardario sarà sempre una persona fortunatissima e felicissima. Finché non ci accorgeremo che esistono due diversi piani di valutazione (continuità o cambiamento nel tempo), daremo agli eventi un potere assoluto che – di fatto – in realtà non hanno. Morale: se volete essere felici, cominciate a lavorare su di voi. Doveste poi vincere alla lotteria, sarete non solo molto eleganti, ma anche felici!

Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/auntyevil/2200823688/)
Riferimenti: per chi volesse saperne di più sugli studi condotti, i ricercatori che se ne sono occupati sono stati Brickman, Coates e Janoff-Bulman (1978), Diener (1996), Silver (1982), Schkade e Kahneman (1998)

martedì 15 aprile 2008

Il potere del colore.

Il giallo è il simbolo della mente e dell’intelligenza. Rappresenta la forza del pensiero e stimola l’attività mentale.
È il colore del distacco e può aiutarci a prendere le distanze da pensieri, sensazioni e abitudini che ci ossessionano. Può rivelarsi estremamente efficace se usato assieme a un supporto psicologico in quanto permette di portare alla luce le debolezze e di individuare i problemi profondi.
I raggi gialli trasportano correnti magnetiche positive che ispirano e stimolano, rafforzano i nervi e aumentano l’elasticità mentale. Questo colore attiva i nervi motori dell’organismo generando energia muscolare. La carenza di energia derivante dalla mancanza di questo colore in una parte del corpo può manifestarsi sotto forma di paralisi parziale o totale. Di conseguenza, il giallo è un colore ideale per curare questo tipo di problemi.
Per quanto riguarda la pelle, il giallo ne migliora la struttura, deterge e guarisce le cicatrici e altri disturbi quali l’eczema. Viene inoltre utilizzato per la cura dei reumatismi e delle artriti perché aiuta a sciogliere i depositi calcarei che si formano nelle articolazioni.

da: Pauline Wills, La terapia dei colori, Mondadori, 1993
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/bonnieshulman/654205425/)

mercoledì 9 aprile 2008

YouTube - Bobby McFerrin - Ave Maria

YouTube - Bobby McFerrin - Ave Maria


Un J.S. Bach inaspettato.
Perché cambiare può significare, talvolta, guardare le stesse cose, in modo diverso.
E riscoprirle, arricchite dagli eco di evocazioni e memorie che tornano a trovarci, con abiti nuovi.

ps: per chi non parla inglese, il brano musicale vero e proprio inizia a 02:18 minuti dall'inizio (vi perderete alcune batture di Bobby McFerrin, che tra le tante altre cose è anche spiritoso... madre natura è stata un po' più generosa con taluni, non credete? ;-)

Sulla malattia, i numeri e le medie.

Le parole dell'ultimo post di Isa, relativo alla malattia, mi hanno colpito.
E' vero, la malattia riesce a cambiare completamente il nostro rapporto con il corpo e con la vita. Ed è altresì vero che è più difficile per lo specialista, il medico o chiunque ne sappia di medicina, accettare la malattia dentro di sé, conoscendone la possibile evoluzione. E' più difficile sperare e ricordarsi che, se anche la probabilità statistica è contro di noi, noi non siamo una media e, soprattutto, la
media è sempre espressione di una tendenza centrale, non riguarda la totalità dei casi. I numeri talora possono essere usati contro di noi, da chi non li sa usare oppure dal nostro cervello, che può focalizzarsi su una parte dell'insieme di possibilità.

Lascio esprimere questo concetto a Stephen Jay Gould, uno dei più prestigiosi biologi evoluzionisti. Questo difficile rapporto tra malattia e numeri, lui l'ha vissuto sulla sua pelle e sa dirlo molto meglio di quanto non saprei mai fare io.

Una carezza virtuale, con infinito affetto, a tutte le persone che in questo momento stanno coltivando dentro di sé il dubbio della malattia, o il suo seme. E una carezza anche alla mia sorellina, matematica, che vorrà perdonarmi questo "attacco" (che non è contro i numeri, ma contro i numeranti e i terroristi dei numeri).

Nel 1982 a quarant’anni mi è stato diagnosticato un mesotelioma addominale, una forma di tumore rara e “inevitabilmente fatale” (per citare tutti i giudizi ufficiali del tempo)… Dopo lo shock iniziale, non appena il mio cervello riprese a funzionare, iniziai a riflettere sui dati e sul verdetto cruciale di “otto mesi di mortalità mediana”. Impostai il mio ragionamento da biologo evoluzionista.
Cosa significano “otto mesi di mortalità mediana”? Eccoci all’errore filosofico che ha motivato questo libro: la maggior parte della gente vede le medie come realtà fondamentali e la variazione come uno strumento per calcolare una misura significativa di tendenza principale. In questo mondo platonico, “otto mesi di mortalità mediana” può soltanto significare: “probabilmente tra otto mesi sarà morto”, forse la diagnosi più raggelante che si possa mai leggere.
Commettiamo un grave errore se consideriamo una misura della tendenza principale come il valore più probabile per ogni singolo individuo; eppure molte persone lo commettono per tutta la vita. La tendenza principale è un’astrazione, la variazione è la realtà. Innanzitutto, dobbiamo chiederci cosa significhi mortalità “mediana”... io non sono una misura della tendenza principale, sia essa la media o la mediana. Sono un singolo essere umano con il mesotelioma, e pretendo una valutazione migliore delle mie possibilità, perché ho delle decisioni personali da prendere, e i miei impegni non possono essere stabiliti da medie astratte. Ho bisogno di porre me stesso nella regione più probabile di una distribuzione di variazione che sia basata sui particolari del mio caso personale; non devo semplicemente presumere che il mio destino corrisponderà a qualche misura della tendenza centrale...

(...) Sono stato curato e guarito da medici coraggiosi, i quali hanno usato un metodo sperimentale che adesso può salvare altri ammalati quando scoprano la malattia in uno stadio precoce

(...) è stata fatta molta strada dai giorni oscuri in cui le diagnosi di tumore venivano scrupolosamente nascoste ai pazienti, sia per la deplorevole ragione che molti medici consideravano il sotterfugio come il modo migliore per mantenere il controllo, sia per il pietoso (e il malaccorto) presupposto che la maggior parte della gente non riuscisse a tollerare una notizia che era un ultimatum e una sentenza di morte. È impossibile però superare gli ostacoli con l’ignoranza: pensiamo a che contributo avrebbe potuto dare Franklin D. Roosevelt alla nostra concezione dell’handicap se, invece di nascondere con la tanta abilità la sua paralisi, avesse dichiarato apertamente che non governava certo con le gambe...


Stephen Jay Gould, Gli alberi non crescono fino al cielo, Mondadori
Foto bambino: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/exitdoors/2383203300/)

domenica 6 aprile 2008

Frank Gehry. Il creatore di sogni.

Ci sono eventi, momenti, incontri che possono cambiare il corso della nostra vita. Non mi sto riferendo agli eventi drammatici che ci investono spezzando tutto quello che trovano, né dei momenti epici di passaggio (matrimonio, laurea, nascita dei figli, pensionamento). Penso piuttosto a quegli incontri occasionali che il caso o il destino collocano sulla nostra strada con tanta indifferenza che ci mettiamo anni anche solo per rendercene conto.

Metti che a sedici anni vai ad una conferenza, trascinato da una forza che non sai denominare né capire: chiamala noia, voglia di uscir di casa o curiosità. Non sai chi parlerà, né di cosa. Ti trovi davanti un vecchio signore che ti colpisce per i suoi capelli bianchi e per i discorsi che fa. Parla di una disciplina di cui non sai nulla, l’architettura, ma lo fa con una passione assoluta, coinvolgente e contagiosa. Non ci pensi per anni. Poi, improvvisamente, ti svegli e ti rendi conto che è quello, proprio quello, che vorresti fare per tutta la vita.

Non è la trama di un film, ma la storia di Frank Gehry, architetto americano tra i più osannati e i più criticati. È autore di decine di progetti dal Guggenheim Museum di Bilbao a piccoli complementi d’arredo (soprattutto lampade), da sculture a forma di pesce a collezioni di gioielli disegnate per Tiffany. Non è stata semplice, la sua vita. Ristrettezze economiche quand’era ragazzo, appena inizia l’università un docente che gli dice, con candore paternalistico, “Frank, cambia strada, l’architettura proprio non fa per te”, un fallimento matrimoniale, un’attività professionale (nel suo ramo) in cui deve fare cose che non lo convincono. Ma lui la lezione di Alvar Aalto (il vecchietto dai capelli bianchi) l’ha incamerata bene. Seguire la propria passione e fare le cose come le vediamo con gli occhi della mente e della fantasia, plasmando la realtà in modo da creare lo spazio per i nostri mondi possibili: questo dà senso al lavoro, all’arte e forse anche alla vita.

Sydney Pollack, nel documentario che ha dedicato alla vita di Gehry, lo ha chiamato “Creatore di sogni”. Uno che non si arrende mai: non davanti alle parole dell’insegnante che vuole fargli cambiare strada, non davanti ai materiali che sembrano incompatibili con la forma che chiede di essere realizzata, e nemmeno davanti alle soluzioni troppo semplici. Quando sono troppo semplici? La sua risposta ha delle evocazioni pascaliane: è troppo semplice quando non soffri almeno un po’ per arrivarci. È un percorso che va dalla semplicità alla complessità e poi torna indietro, un passaggio continuo dalla mente alla carta, da questa ai modellini tridimensionali e poi di nuovo alla carta, alla mente, in un continuo circolo virtuoso. Di modellini non ne fa mai uno solo, ma svariati e in scale diverse: è troppo facile innamorarsi di una forma in una dimensione, per capirla bisogna vederla in scale diverse, solo allora riesci a vedere quello che hai di fronte e ti stacchi un po’ dall’immagine che hai in testa.

Cosa fare, dunque, quando la vita si oppone ai nostri progetti, quando siamo così confusi da non ricordarci neanche quali siano i nostri progetti? Andare avanti, darsi da fare, confrontarsi con le critiche senza assimilarle troppo, cercare di guardare i problemi con occhi nuovi, diversi. Stupirsi sempre della soluzione che arriva, quasi magicamente, e non disconoscerla quando l’abbiamo messa in pratica. Costruire un edificio è un processo titanico: ci vuole così tanto tempo che, quando è finito, sei talmente stanco da vederne ormai solo i difetti. Ma, come dice Gehry, basta aspettare che ci entri la luce, e tutto prende vita.

giovedì 3 aprile 2008

Quanto più in fondo vi scava il dolore, tanta più gioia potrete contenere.

Allora una donna domandò: Parlaci della Gioia e del Dolore.
Ed egli rispose:
La vostra gioia è il vostro dolore senza maschera.
E il pozzo da cui scaturisce il vostro riso, sovente fu colmo di lacrime.
Come può essere altrimenti?

Quanto più in fondo vi scava il dolore, tanta più gioia voi potrete contenere.
La coppa che contiene il vostro vino non è la stessa bruciata al forno del vasaio?
E non è forse il liuto che accarezza il vostro spirito, il legno svuotato dal coltello?

Quando siete contenti, guardate in fondo al cuore e saprete che ieri avete sofferto per quello che oggi vi rende felici.
E quando siete tristi, guardatevi il cuore e v’accorgerete di piangere per quello che ieri fu il vostro diletto.
Tra voi, alcuni dicono: “La gioia è più grande del dolore”, e dicono altri “Il dolore è più grande”.
Ma io vi dico che sono inseparabili.
Essi giungono insieme, e se l’una vi siede accanto alla mensa, ricordatevi che l’altro sul vostro letto dorme.

In verità siete bilance che oscillano tra la gioia e il dolore.
Soltanto quando siete vuoti, voi siete equilibrati e fermi.
Se per pesare l’oro e l’argento vi solleva il tesoriere, gioia e dolore dovranno a turno alzarsi o ricadere.

Gibral Kahlil Gibran, Il Profeta, Ugo Guanda Editore, 1981

mercoledì 2 aprile 2008

Quando la malattia minaccia la vita

Ciascuno di noi nell’arco della propria esistenza, prima o poi, dovrà fare i conti con la malattia e la modalità con cui affronterà questo attacco all’integrità del proprio mente-corpo dipenderà da molti fattori, dall’età, dal genere, dai tratti di personalità (ottimista/pessimista), dalla condizione economica, dalla costellazione familiare e i legami parentali, dall’integrazione nel tessuto sociale, dal credo religioso, dai valori riconosciuti.
Con la malattia abbiamo un approccio su un duplice livello,interiore, psicologico ed esteriore, sociale.

La malattia spezza l’equilibrio fra risorse interne e richieste esterne, costringendoci a prendere consapevolezza del nostro essere finito, materiale, organico, che insidia le nostre aspirazioni spirituali, mistiche, filosofiche di possedere quella scintilla d’infinito che ci rende unici nell’universo.
La malattia ci ricorda la nostra natura transeunte, provvisoria, di passaggio su questo pianeta, in questa epoca, e ci rende improvvisamente vulnerabili, fragili, ma anche furiosi, increduli, che tale rovina stia accadendo proprio a noi.

Dopo una iniziale negazione difensiva, si prende coscienza che il nostro mente-corpo ha iniziato un processo di deterioramento, e si aprono due possibilità: subire questo processo, cercando un vantaggio secondario, una maggiore attenzione a noi in quanto malati, oppure lottare per recuperare l’integrità perduta. Quale direzione prenderemo dipende dalla nostra personalità, ma anche dalla situazione contingente, ancora coesistenza di aspetti interiori ed esteriori.

Altre considerazioni sono d’obbligo per chi affronta tutti i giorni la malattia dell’Altro per professione, medici, infermieri, psicologi. In questi professionisti la complessità dei fattori in gioco è moltiplicata dal ruolo professionale e dal loro essere persone tra altre persone dolenti. Gli approcci possono essere diversi, ma in ogni caso è indispensabile un certo distacco per non vanificare la prospettiva di cura, espressa con modalità dipendenti anche da una formazione prevalentemente medica o psicologica. La vicinanza con il malato, sebbene espressa secondo modalità personalissime, può facilitare il processo di guarigione, in quanto asseconda il bisogno di accoglienza, di ascolto, di attenzione manifestato dal paziente, ma occorre competenza e cautela.

Un altra prospettiva si apre quando ad ammalarsi è un professionista della salute, con tutto il carico di competenze e conoscenze che rende le autodiagnosi insidiose e terribili, in quanto riconosciute come vere.
La cultura scientifica appresa per esercitare una professione d’aiuto sembra ritorcersi contro, diventando chiarissime le conseguenze, le possibili evoluzioni di un disturbo psico-fisico: a volte l’ignoranza permette una vita più tranquilla.

Forse ci ritroveremo a fare un bilancio della nostra esistenza fino a quel momento con i rimpianti e i rimorsi, forse ci infurieremo perché non potremo tenere fede agli impegni presi e deludere le persone che contavano su di noi.

Forse avremo l’occasione per riflettere, dopo tanto affannarsi e correre, su quali siano le priorità, i valori, le persone veramente importanti per le quali vale la pena lottare e guarire, perché hanno ancora bisogno di noi, o semplicemente ci vogliono bene.

A tutti coloro che stanno lottando con la malattia, auguro di trovare sempre la forza per opporsi ragionevolmente ad una fine prematura, senza perdere di vista il valore che, anche la malattia, come esperienza, arricchisce il nostro vissuto.

martedì 1 aprile 2008

Abbandonare la morsa del sé.

Tutta la violenza,
la paura e la sofferenza
Che esistono nel mondo
Provengono dall’attaccamento al sé.
A che ti serve questo grande,
perfido mostro?

Se non abbandoni la morsa del sé,
Non ci sarà mai fine
alla tua sofferenza.
Proprio come, se non la allontani
dalla tua mano,
Non puoi impedire a una fiamma
di bruciartela.

Se puoi risolvere il tuo problema,
che bisogno c’è di preoccuparti?
Se non puoi risolverlo,
A che serve preoccuparti?


Shantideva (maestro buddhista)

lunedì 31 marzo 2008

Il male oscuro non è più prerogativa dei paesi ricchi.

Tempi di cambiamento, cambiamento dei tempi. E anche dei luoghi.
Mentre in Italia assistiamo ad un movimento (potremmo forse più correttamente parlare di una lobby) che sta operando affinché gli psicologi non abbiano più il diritto (legale) di fare diagnosi, dall’altra parte del mondo si scopre sempre di più l’importanza della psicologia e dell’ascolto. Non mi sto riferendo agli Stati Uniti, anche se certo l’esempio potrebbe essere calzante, pur se scontato. Sto parlando dell’India.

Un continente in fortissima espansione economica, più di un miliardo di persone, una forbice spaventosamente aperta tra chi può vivere nel lusso e nell’agiatezza occidentali e chi non ha nulla nemmeno per sfamarsi. E – potrà stupire molti – il bisogno di ascolto e di supporto psicologico viene espresso non tanto (o non solo) dai primi, bensì soprattutto da questi ultimi. Era stato Gandhi, proprio in quel paese, a ricordare che nemmeno Dio può pretendere di essere ascoltato da una persona che ha fame, a meno che non gli parli di cibo.

Ma i tempi cambiano, come ci spiega un lungo articolo comparso settimana scorsa sulle pagine di scienza e tecnologia della versione internazionale del The New York Times (io l’ho trovato nel supplemento della Sűddeutsche Zeitung di martedì 25 marzo), dal titolo: “In third-world Test, Psychotherapy for All”, a firma di David Kohn.

Un tempo si credeva che chi ha fame non ha tempo (ed energie) per cadere in depressione. Non è più così. La depressione è un male oscuro che sta preoccupando milioni di indiani e soprattutto il sistema sanitario del paese (sembra che in India i disturbi del tono dell’umore abbiano un incremento del 20% l’anno!) È stato lanciato un nuovo programma, chiamato GOA, studiato e coordinato dal dottor Vikram Patel della London School of Hygiene and Tropical Medicine. Si tratta di un trattamento combinato di antidepressivi collegato con un supporto psicologico che ha dimostrato di essere estremamente efficace. Come spiega il dottor Patel, in un continente dove correre è una necessità per arrivare al domani, non c’è più nessuno che ascolta. E se non c’è nessuno che ti ascolta, può capitare che perdi la voglia di correre e, spesso, persino la motivazione per arrivarci, al domani.

Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/mamen/144901429/)

Le storie da vivere, da scrivere, da raccontare.


"Raccontare storie è educare, elevare: non è una pratica oziosa. Se ci sono traffici di storie, per cui due persone si scambiano storie come doni reciproci, è perché ormai si conoscono bene, si sentono affini. E così deve essere. Sebbene alcuni usino le storie come puro intrattenimento, esse sono, nel senso più antico, un’arte curativa. Alcuni a quest’arte sono chiamati, i migliori, a mio avviso, sono coloro che giacquero con la storia e ne scoprirono tutte le parti che si adattano l’un l’altra dentro di sé e in profondità. Occupandoci di storie, maneggiamo energia archetipa, che molto ha in comune con l’elettricità. Può animare e illuminare, ma nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, come qualsiasi medicina, può avere effetti indesiderati. Talvolta le persone che collezionano storie non si rendono conto di che cosa chiedono quando chiedono una storia di questa dimensione. L’archetipo ci cambia; se non c’è cambiamento, non c’è stato vero contatto con l’archetipo.
(…) Invito le persone a tirare fuori la loro storia, perché graffiarsi le mani, dormire sulla terra fredda, brancolare nel buio, e tutte le avventure che capitano, valgono tutto. Su ogni storia deve cadere qualche goccia di sangue, se dev’essere di medicamento.Spero che lascerete che le storie vi accadano, e che le elaborerete, le innaffierete con il vostro sangue e le vostre lacrime e le vostre risa finché non fioriranno, finché voi medesime non fiorirete. Allora vedrete che medicine sono, e dove e quando somministrarle. Questo è il lavoro. L’unico lavoro".

C’era una volta una creatura alla quale il pessimo carattere aveva provocato difficoltà enormi e la perdita di buoni amici. Si avvicinò a un vecchio saggio coperto di stracci e gli domandò: “come potrò riuscire a tenere sotto controllo questo demone della rabbia?” Il vecchio gli consigliò di raggiungere una lontana oasi riarsa nel deserto, di sedere tra gli alberi secchi e di raccogliere l’acqua salmastra per i viaggiatori che vi si fossero avventurati.
E l’uomo, nel tentativo di vincere la sua collera, andò nel deserto fino al posto degli alberi secchi. Per mesi, avvolto in mantelli e nel burnus per proteggersi dalla sabbia, raccolse l’acqua salmastra e la offrì a tutti quelli che passavano. Trascorsero gli anni, e non soffriva più di accessi di collera.
Un giorno arrivò all’oasi morta uno scuro cavaliere, e lanciò un’occhiata altezzosa all’uomo che gli offriva l’acqua in una ciotola. Il cavaliere disprezzò l’acqua torbida, la rifiutò, e riprese a cavalcare.
L’uomo che aveva offerto l’acqua andò subito in collera, tanto da esserne accecato, e afferrò il cavaliere, lo tirò giù dal suo cammello e lo uccise. Immediatamente, con dolore comprese di essere stato consumato dalla collera. Ed ecco che cosa accadde poi.
D’improvviso un altro cavaliere arrivò al galoppo. Guardò in volto il morto ed esclamò: “Allah sia ringraziato! Hai ucciso l’uomo che stava andando ad assassinare il re!” E in quel momento l’acqua torbida dell’oasi si fece limpida e dolce e gli alberi secchi dell’oasi diventarono verdi e si ricoprirono di gemme.


Da: Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi. Il mito della donna selvaggia, Frassinelli, 1993
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/lozingaro/2273236459/)

sabato 29 marzo 2008

La privacy. L’araba fenice che non c’è… e probabilmente non ci manca nemmeno.

Tra poco saranno messi in commercio i telefonini che diranno – a chi vi chiama o vi risponde – dove siete. Cade definitivamente un altro mito, quello della privacy relativa per lo meno alla propria posizione. Ma la privacy, oggi, esiste ancora? Come si è trasformata nel mondo dell’informazione a 360 gradi, dove se non ci sei virtualmente come informazione non sei nessuno?

La risposta più intelligente e pragmaticamente più funzionale ce la danno i giovani. Gli americani, sempre così veloci nell’etichettare le nuove tendenze, li chiamano millenials. Sono quelle persone (per lo più giovani) sempre collegate ai social networks (Facebook, MySpace et similia) su internet o via cellulare. Hanno rinunciato alla propria privacy quasi di default. Nei social network se non compari con la tua faccia e la tua identità (i tuoi gusti, cosa fai, in cosa credi) non ha senso esserci. Quindi loro hanno fatto due calcoli: esserci garantisce un certo numero di vantaggi immediati (nuovi amici, contatti, opportunità, eccetera eccetera). Non esserci tutela la privacy, la confidenzialità dei dati, ripara da enne possibili ipotetici problemi…. Cos’è meglio tra i due? Ovviamente esserci, nessun dubbio amletico.

Hanno insegnato – a noi vecchi babbioni ancora convinti che la confidenza e la discrezionalità siano un valore – che è inutile farsi tante paranoie mentali. Avere il coraggio di apparire ha tanti vantaggi. Oggi su la Repubblica Michael Rogers, futurologo professionista del New York Times, spiega quali possono essere i servizi messi a disposizione di chi si farà trovare. Tra neanche cinque anni, se sarete abbonati al NYT e vi troverete davanti ad un palazzo o a qualsiasi cosa attiri la vostra attenzione, voi vi collegate via cellulare al NYT e chiedete informazioni. In tempo reale, saranno scaricati sul vostro cellulare articoli, servizi, informazioni legate alla vostra ricerca. In alternativa, avrete un giornale che vi segue. Iniziate a leggerlo la mattina, vi interrompete in un punto, lo passate all’ipod o ad altro sistema elettronico che ve lo legge quando sarete in macchina o sul metro (chiaramente partendo dal punto in cui avete smesso la lettura) e poi potrete farvelo passare in ufficio sul computer, oppure sul palmare o sul cellulare. A vostra scelta. Il futuro è questo: saremo seguiti da un’ombra sempre a nostra disposizione, quasi un cavalier servente che chiede solo di soddisfarci. L’unica cosa che ci viene richiesta: dire chi siamo e lasciargli scoprire dove siamo. Che ne pensate? Tanto, scoprire dove siamo lo scoprirebbero comunque. Forse hanno ragione i più giovani: inutile farsi tante paranoie, prendiamo i vantaggi e per i possibili svantaggi ci attrezzeremo, se serve ;-D

Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/mac_fun/2255115632/)

giovedì 27 marzo 2008

Il valore dei pensieri positivi

Siamo soliti proteggere le nostre case dai ladri. Eppure non prestiamo alcuna attenzione alla casa delle nostre idee e ai pensieri che ospitiamo nella nostra mente. Sembra siamo ignari o indifferenti ad una realtà che ci si palesa ogni giorno: la qualità dei pensieri fa la qualità della nostra vita.
Pensare bene significa pensare costruttivamente. Sono costruttivi i pensieri che suggeriscono energia, salute, amore, progresso, felicità, abbondanza, pace, spiritualità, eccetera. Chi ha la tendenza a guardare e a pensare al lato positivo delle cose, deve accrescere sempre più una felice disposizione d’animo, perché attira a sé quello che guarda e quello che pensa.
I pensieri costruttivi sono i nostri migliori amici. Fanno progredire più rapidamente perché attirano verso la metà di ogni persona che è – o dovrebbe essere -la felicità. Danno serenità, liberano risorse cognitive, creano un circolo virtuoso.

mercoledì 26 marzo 2008

Generalizzare. Il modo migliore per non risolvere mai il problema del qui ed ora.

Continua la serie dei modi in cui possiamo riuscire a complicarci la vita. E’ il turno della generalizzazione. Sembra proprio che abbiamo implicita la tendenza a non accontentarci dei singoli casi o dei singoli momenti della vita: dobbiamo sempre allargare il fuoco. Per generalizzazione gli psicologi intendono l’abitudine (deprecabile e molto dannosa) in base alla quale se facciamo qualcosa di sciocco una volta, concludiamo che siamo sciocchi. Esempio: facciamo un colloquio di lavoro e non ci prendono, significa che valiamo quasi niente. Sosteniamo un esame, va male: siamo incapaci, non ce la faremo mai, meglio smettere subito. La nostra amica pietosa, stufa di vederci sole e tristi, ci presenta un ragazzo, durante l’incontro non scocca il colpo di fulmine, vuol dire che siamo bruttine, non interessiamo nessuno, rimarremo sole per tutta la vita.

Quante volte ragioniamo in questi termini? Che ne siamo consapevoli oppure no, purtroppo questo modello di ragionamento per generalizzazione è assai frequente. È (per lo più) ingiustificato e foriero di delusioni e sofferenza, eppure comune. Se un esame non va bene, non dovremmo mettere in dubbio la nostra intelligenza, il nostro essere e il nostro futuro. Mettiamo in pista solo le pedine che servono. In ogni momento della vita le variabili che contribuiscono al successo o all’insuccesso sono tante, non tutte sotto il nostro controllo, non esageriamo il nostro ruolo, soprattutto non pensiamo che qualsiasi cosa noi facciamo è in gioco tutta la nostra identità.

Una parola soprattutto per le mamme. Quando criticate un comportamento sbagliato di vostro figlio, non ditegli “scemo, stupido, sei incapace, fai sempre disastri, eccetera eccetera”. Non generalizzate i vostri commenti. Rimanete nel presente e commentate quello. Se vostro figlio ha mangiato e non ha riposto il piatto oppure è tornato a casa sporco come un pulcino nero, sgridatelo pure ma fatelo rispetto a quel comportamento (hai fatto una cosa sbagliata, rimedia), non fate nascere dentro di lui il tarlo che – qualunque cosa faccia – è sbagliata e non all’altezza perché lui è sbagliato e non all’altezza. Per voi può essere una piccola differenza, ma la nostra mente è una straordinaria macchina con le sue peculiarità e tende a prendere per vere le cose che ci dicono le persone a cui vogliamo bene, anche se loro pensano di averle dette tra virgolette e senza intenderle davvero.

Generalizzare e trovare le cause nei massimi sistemi, nel carattere o nell’intelligenza o nelle capacità della persona, è quasi sempre un modo per non risolvere il problema creandone uno nuovo, ben più grave. I problemi si possono risolvere, uno alla volta, nella pratica del quotidiano. Trasferirli in un piano astratto vi impedisce qualsiasi contatto e possibilità di azione: è come delegare la propria vita ad un deus ex machina malefico ed inviolabile. Tornare al presente e lavorare su quello significa riprendere controllo della propria vita e cambiare qualcosa, se proprio non ci va, oppure imparare responsabilmente ad accettarlo.

lunedì 24 marzo 2008

Diventare madri a quindici anni: la portata di tale cambiamento



Molto risalto ha avuto la notizia di una ragazzina di quindici anni della provincia di Pordenone che, incinta, ha chiesto l’assistenza di un avvocato per ricorrere contro la decisione dei genitori che volevano farla abortire. La ragazza, già madre a tredici anni a causa di una relazione sempre con lo stesso giovane di circa 20 anni, operaio, non intende interrompere la gravidanza e rinunciare al figlio come già accaduto anni prima, perchè forte del sentimento di “amore totale” nei confronti del giovane fidanzato, e di convinzioni religiose.
I genitori della ragazza, travolti da un tale clamore mediatico, dopo un drammatico incontro con la figlia, il fidanzato e l’avvocato, decidono di aiutare la figlia e di sostenerla nell’ accudimento di questo nuovo nato.
Lo scarno resoconto della cronaca non rende ragione della complessità della situazione che coinvolge la ragazzina, ancora in una fase di crescita e costruzione di identità e la coppia genitoriale alle prese con un doppio compito di cura parentale: nei confronti di una figlia che, nonostante gli eventi, non è ancora entrata nell’età adulta, non ha ancora le risorse intellettive, emotive, pratiche per accudire un neonato, e l’impegno ora inderogabile di prendersi cura di questo innocente creatura.
La mia opinione è che questi genitori non debbano essere giudicati, ma sostenuti, la prova che dovranno affrontare sconvolgerà la loro vita, i loro progetti , i loro sogni per la loro bambina, perché probabilmente la considerano ancora tale.
Per lei avrebbero voluto il meglio: ora devono occuparsi della responsabilità di un’altra vita che dipenderà totalmente da loro, cercando di dare a questo neonato le stesse cure, lo stesso amore che hanno elargito alla loro bambina. Non è un’impresa da poco, questi genitori meritano rispetto e sostegno: dovranno superare crisi, difficoltà e vigilare contemporaneamente su figlia e nipote.
La ragazzina, dopo il clamore, si troverà alle prese con una responsabilità di madre che ancora è tutta da costruire, con difficoltà e paure sempre più concrete, dopo il vagheggiamento del sogno di una famigliola così precocemente costituita. Come sarà condizionata la sua vita, come affronterà lo studio, la ricerca di un lavoro, l’inserimento nel modo degli adulti e della produttività, l’eventuale matrimonio con il suo fidanzato?
L’ipotesi più favorevole è quella di un sostegno forte, importante da parte dei genitori e del fidanzato che attutisca le innumerevoli difficoltà che occorrerà affrontare.
L’augurio migliore a questa ragazzina determinata a diventare adulta molto in fretta è che il suo cammino sia il più a lungo possibile un percorso in cui possa sempre contare sui suoi genitori e sul suo “amore totale”.

Foto: courtesy of Flickr.com
www.flickr.com/keela84/

sabato 22 marzo 2008

L'uomo e il suo cane: una storia d'amore




Dall’alba dei tempi l’uomo ha avuto al suo fianco questo meraviglioso essere vivente a quattro zampe, e la riconoscenza per questo legame unico è stato celebrato con manufatti artistici molto diversi. dai graffiti, alle statue ai templi. Nell’antico Egitto accompagnavano il loro divino padrone nel viaggio dell’aldilà. Nel nostro tempo sono sempre più presenti nelle famiglie italiane, e sono insostituibili per le persone che vivono sole o che soffrono di disagi psichici. La Pet-therapy è ormai certificata da tanti successi e miglioramenti di situazioni considerate altrimenti disperate.
Fa ben sperare l’ aumento della sensibilità nei confronti dei nostri piccoli amici con campagne che intendono combattere l’abbandono durate le vacanze, oppure la soppressione dei levrieri irlandesi con adozioni, o ancora con l’ordinanza della Regione Toscana che permetterà l’ingresso ai cani in tutti i locali pubblici. Si tratta di piccoli gesti che non riescono a colmare il divario tra l’affetto incondizionato che i nostri animali domestici ci donano giorno dopo giorno, e quanto noi esseri umani, dotati di intelligenza superiore siamo in grado di ricambiare quel regalo d’amore che si esprime attraverso la gioia ogni volta che ritorniamo dopo una assenza anche breve, facendoci sentire assolutamente importanti almeno per quel batuffolo di pelo che ci guarda con occhi traboccanti di vero amore.
Penso che chi non abbia mai posseduto un animale domestico si sia privato di un’esperienza che fa davvero cambiare la vita, il rapporto con un cane , un gatto o altre piccole specie, ha un effetto decentrante rispetto all’egoismo di cui siamo permeati, ci costringe a considerare i bisogni, le aspettative, i possibili pensieri di un Altro, diverso da noi, ma con un cuore grande e forse più del nostro.
Chi maltratta gli animali, chi li tortura, chi li sfrutta per scopi di lucro trattandoli come oggetti a perdere e non come esseri viventi è un criminale, socialmente pericoloso. Non a caso un elemento predittivo della tendenza ai crimini seriali citato dalla letteratura criminologica è la crudeltà nei confronti degli animali in età giovanile, naturalmente non è sufficiente a definire la propensione a diventare un serial killer, occorrono molti altri elementi che non sono adatti in questo articolo dedicato all’amore per gli animali, che può far cambiare la vita di chi ha la volontà di accogliere un dono duraturo.
Senza bisogno di parole, il nostro cane ci sta accanto e non si stacca da noi quando abbiamo un momento di sconforto, quando ci sentiamo depressi, quando sembra che tutto il mondo ci crolli addosso, con il calore del suo piccolo corpo cerca di scaldare il nostro cuore assiderato dall’indifferenza e dal dolore, cerca di consolare la nostra anima afflitta dalla cattiveria che sovrasta le opere di bene.
Alcuni sollevano l’obiezione che chi ama troppo gli animali, non ama abbastanza gli umani e quindi è sostanzialmente un emarginato, un solitario.
A tutti coloro che sostengono questa tesi è utile ricordare che l’uomo è l’unico tra le specie viventi che uccide i suoi simili non per sopravivvenza, ma per altri motivi dal piacere, all’interesse. Nel regno animale, abbiamo molto da imparare in termini di solidarietà di specie, di accudimento dei cuccioli, di legami parentali, di accompagnamento alla morte.
Usiamo le nostri dotazioni intellettuali per migliorare la nostra vita, non per autodistruggerci, il nostro animale domestico rimarrà al nostro fianco, e verrà a trovarci anche quando non ci saremo più in questa vita, continuando a vegliarci con immutato amore.

Foto: Isa, Mizar, 2007
Dedicato a Flocky, scomparso nel 1995 e Mizar con me da sei anni

venerdì 21 marzo 2008

Siamo i soli responsabili per ciò che è stato?

Eccovi un altro dei tanti modi che usiamo per rovinarci la vita. Oggi parliamo della curiosa tendenza al determinismo. Gli psicologi ci hanno chiaramente mostrato che il determinismo è il modo “principe” di spiegare (a posteriori) le cose che sono capitate. Dopo che un evento è capitato, siamo tutti più inclini a ritenere normale, giusto, ovvio – praticamente quasi obbligato - quello che è successo. Se tra un mese avrà vinto Veltroni (o Berlusconi), ci sembrerà che le cose erano già ben chiare prima che ci fossero le elezioni: gli indizi c’erano tutti, magari non li avevamo ben messi in ordine, ma era chiaro. Ci sembra quasi che le cose non avrebbero potuto andare diversamente.

Questa tendenza ha un aspetto negativo piuttosto insidioso. È l’aspetto del controllo e della responsabilizzazione (con relativa colpevolizzazione). Per le elezioni, passi. Ma se pensiamo ad un evento della nostra vita personale che ha avuto un esito negativo, tendiamo a sentirci colpevoli e responsabili di quello che è successo. Avremmo potuto prevederlo ed evitarlo, non lo abbiamo fatto: siamo citrulli. Sembra un sillogismo (una linearità logica) perfetto: la dimostrazione che siamo davvero storti (o stolti). Tranquilli, non è così (non sempre almeno ;-)

Si tratta di nuovo di una informazione sbagliata o meglio un modo sbagliato di leggere i dati. Anche se forse ci piacerebbe (ma davvero ci piacerebbe?) sapere che le cose per forza devono andare in un certo modo, in realtà, il senno di poi è determinista per un desiderio (ingenuo e tenero) di poter controllare ciò che non è controllabile: il mondo e gli eventi della vita. Guardando al passato vediamo una linea retta: quella che unisce tutti e solo gli eventi che sono capitati. Il presente, e soprattutto il futuro, invece, non hanno linee rette, ma un’infinità di punti e di linee a zig-zag: una serie di possibilità, di cui solo una o alcune si attueranno.

Siamo un po’ più clementi con noi stessi, quando pensiamo al nostro passato. E’ definitivo e certo solo perché ha esaurito la trasformazione da potenza in atto (direbbe Aristotele), ma questo non deve farci dimenticare che di possibilità ce n’erano tante e noi non abbiamo la responsabilità esclusiva di come sono andate le cose. Dedichiamo piuttosto le energie in maniera più proficua per vivere il presente: è più utile ed infinitamente più piacevole!

giovedì 20 marzo 2008

L'amore ci fa cambiare?


L’amore può irrompere nella nostra vita come la furia di una tempesta, travolgendoci in un uragano di emozioni, oppure può crescere un poco alla volta, trasformando una iniziale amicizia in un legame diverso, profondo che richiede impellente la presenza dell’Altro, oggetto del nostro sogno di vicinanza, di tenerezza, di accoglimento, di vita in comunione di ragione e sentimenti. Quando questo ciclone travolge la nostra routine quotidiana, noi diventiamo diversi, irriconoscibili agli occhi dei nostri cari, che, se ci sono davvero vicini, immediatamente si accorgono del repentino cambiamento.
Le spiegazioni del nostro essere “diversi “sono molteplici e si possono estrapolare a partire dalle teorie di discipline delle scienze umane, dalla neurofisiologia, alla psicologia, alla religione, alla mistica, alla filosofia, alla sociologia.
Quando siamo innamorati abbiamo una percezione alterata della realtà, la nostra stessa coscienza elabora con modalità non usuale e crediamo di vedere, sentire, intuire qualcosa che potrebbe non essere reale, ma frutto della nostra fantasia o dell’elaborazione di informazioni secondo un filtro “rosa”, non oggettivo.
Alcuni studiosi, neurofisiologi, assimilano l’innamoramento ad uno stato allucinatorio, come prodotto dall’assunzione di sostanze, che invece sono prodotte dal nostro stesso organismo in seguito alla sollecitazione ormonale e non soltanto…
Quando osserviamo due innamorati ci salta subito all’occhio quell’atmosfera di fiaba, di isola felice, di separazione dal resto del mondo dei comuni mortali, di distacco dalla realtà.
Lo stato di esaltazione che la nostra mente ci fa provare è come un eccitante che ci scorre nelle vene e ci fa sentire unici, immensi, potenti:l’amore è la nostra forza motrice, senza ci sentiamo persi, piccoli, vulnerabili.
Il sociologo Alberoni in “Innamoramento e amore” definisce questa fase di esaltazione come stato nascente, allo scoppio del colpo di fulmine, ma non è destinata a durare, perché forse troppo dispendiosa per il nostro equilibrio interno e per la normale funzionalità del nostro corpo.
Chi, almeno una volta nella vita, non si è trovato in questa situazione, non può aver sperimentato l’altra faccia della medaglia, il dolore immenso, struggente per la fine di un amore, per la perdita della persona amata.
Sull’amore abbiamo molte ipotesi e poche certezze, una di questa è che l’amore ci fa cambiare, ci fa maturare, ci fa soffrire, ma se non ci fosse sarebbe come non aver veramente vissuto.

Foto: courtesy of Flickr
www.flickr.com/photos/califfo1978/

Essere sacrestani della propria vita.

Le persone meccaniche, per cui la vita è una speculazione difficile, dipendente da un calcolo accurato di mezzi e di metodi, sanno sempre dove vanno, e raggiungono la meta; essi partono col desiderio ideale di essere sacrestani della propria parrocchia e, a qualunque ceto appartengano, essi riescono a divenire sacrestani e niente più.

Un uomo il cui desiderio sia di diventare qualunque cosa all’infuori di se stesso, riesce a ciò invariabilmente. È il suo castigo. Chi vuole una maschera deve portarla.

Oscar Wilde, De Profundis

martedì 18 marzo 2008

Saper vedere.

C’è una grande, abissale differenza tra guardare e vedere. Costantemente guardiamo il mondo intorno a noi, ma cosa vediamo davvero? Quello che ci circonda oppure semplicemente quello che pensiamo di doverci trovare? Chi di noi sarebbe in grado di descrivere, precisamente, il quadro che si trova nella sala riunioni del proprio ufficio o persino sopra il proprio letto; chi saprebbe disegnare in maniera realistica i tratti del viso delle persone che vediamo tutti i giorni, sui mezzi o in ufficio?

Guardiamo sempre, scrutiamo, fissiamo, cerchiamo... ma raramente vediamo. L’arte inizia proprio lì: da uno sguardo diverso dell’artista. E, mi verrebbe da dire, è il punto dove inizia anche la vita, vissuta consapevolmente. Smettendo di cercare quello che pensiamo di volere, per indagare cosa davvero ha da proporci la vita.

Qualche testimonianza diretta dalle parole di artisti:

James Lord ha dato la seguente descrizione della reazione dell’artista Alberto Giacometti allo spazio vuoto: «Si rimise a dipingere, ma dopo qualche minuto si voltò a guardare nel punto dove fino a poco prima c’era stato il busto, come se volesse riesaminarlo, ed esclamò: “Oh, non c’è più!” Gli ricordai che Diego lo aveva portato via, ma egli disse: “Sì, ma io credevo che ci fosse. Ho guardato e d’un tratto ho visto il vuoto. Ho visto il vuoto. E’ la prima volta che mi capita nella vita».
James Lord, A Giacometti Portrait

Conversando con l’amico André Marchand, il pittore francese Hénri Matisse descrisse in questo modo il passaggio da un tipo di percezione ad un altro: «L’uomo, sapete, ha soltanto un occhio che vede e registra tutto, un occhio che è come una straordinaria macchina fotografica che riprende immagini minute, molto nitide, minuscole; e con quell’immagine, l’uomo dice a se stesso, e per un momento è tranquillo. Poi, sovrapponendosi gradualmente all’immagine, compare, senza che lui se ne accorga, un altro occhio, che riprende un’immagine completamente diversa. “E a questo punto il nostro uomo non vede più chiaramente; ha inizio una lotta tra il primo occhio e il secondo, una lotta feroce, e alla fine il secondo occhio ha la meglio, assume il controllo e così la lotta finisce. Ora che ha in mano la situazione, il secondo occhio può continuare il suo lavoro da solo ed elaborare la propria immagine secondo le leggi della visione interiore. Questo occhio speciale si trova qui” disse Matisse, indicando il cervello.
J. Flam, Matisse on Art

“L’artista è il confidente della natura. I fiori dialogano con lui per mezzo dell’aggraziato curvarsi dei loro steli e del loro dischiudersi in armoniose sfumature di colori. Ogni fiore ha per lui una parola cordiale che la natura gli rivolge”.
Auguste Rodin

“E’ per vedere più chiaramente, per vedere ancor più in profondo, ancor più intensamente, ed essere quindi pienamente consapevole e vivo, che disegno ciò che i cinesi chiamano ‘Le diecimila cose’ che ci circondano. Il disegno è la disciplina per mezzo della quale riscopro costantemente il mondo. Ho imparato che le cose che non ho disegnato non le ho mai viste veramente, e che, quando mi metto a disegnare una cosa qualsiasi, essa mi si rivela straordinaria, un puro miracolo”.
Frederick Franck, The Zen of Seeing

“Quando il bambino comincia a disegnare qualcosa di più che semplici scarabocchi – cioè all’età di tre o quattro anni – la sua memoria e il suo procedimento grafico sono già dominati da un insieme consolidato di conoscenze concettuali formulate in termini di linguaggio… Un disegno è così un resoconto grafico di un processo essenzialmente verbale. Man mano che la sua formazione verbale diventa dominante, il bambino abbandona i suoi tentativi grafici per affidarsi quasi totalmente alle parole. Il linguaggio, dopo aver contaminato il disegno, finisce per sopraffarlo completamente”.
Scritto dallo psicologo Karl Bűhler nel 1930

Citazioni tratte da: Betty Edwards, Disegnare con la parte destra del cervello., Longanesi & C, 1996
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/minina007/140529526/)

lunedì 17 marzo 2008

Dobbiamo appropriarci vastamente dell'esistenza, in ogni modo.

Dobbiamo appropriarci vastamente dell’esistenza, in ogni modo. Tutto, anche l’inusitato, deve esserci possibile. Questo è in fondo l’unico ardimento che ci viene richiesto: avere coraggio per ciò che è più strano, più inspiegabile. R.M. Rilke

Il coraggio è un tema di cui si discute raramente, sembra una rimembranza di tempi lontani in cui era un valore tra i più stimati, insieme all'onore e alla fedeltà. Eppure il coraggio è qualcosa che serve, nella vita di tutti, ogni giorno. Il coraggio di andare avanti, di accettare i propri sbagli, di cambiare quello che non funziona, di sfidare la sorte. Il coraggio di essere se stessi.

Sembra che, tramontato il primato valoriale del coraggio, anche la nostra vita sia cambiata. Rilke ci parla del coraggio di investigare ciò che è più strano ed inspiegabile, di andare oltre i confini del noto per esplorare nuovi mondi, dentro e fuori di noi. Nella vita caotica e frenetica che conduciamo tutti noi, ogni giorno, mi chiedo chi si ricorda di farlo. Alzarsi la mattina alle sette o anche prima, salire su mezzi sempre più pieni, correre in ufficio, mangiare un panino al volo, ritornare al lavoro cercando di ignorare la sonnolenza e tentando di accelerare con il pensiero la corsa dell’orologio. E poi di nuovo mezzi, casa, mangiare, dormire… per fortuna non è sempre così, né per tutti. Ma quando, in questo modo di vivere così routinario, ci ricordiamo che la vita potrebbe essere qualcosa di diverso. In fondo viviamo in un mondo privilegiato, abbiamo la possibilità di scegliere. Ma scegliere richiede coraggio. Ed è quello che, forse, ci è stato tolto o ci siamo fatti togliere, orpello inutile in tempi in cui è meglio correre, senza chiedersi perché o per come.

Ma io condivido il pensiero di Rilke. L’unico ardimento che ci viene richiesto è di avere ardimento. Come dire: l’unico modo di vivere è vivere. Ma farlo davvero.

A volte ritornano.

Qualche giorno fa, su questo blog, mi ero lamentata del fatto che prestare i libri è un modo certo per perderli (va meglio che con il denaro, in realtà: per la mia esperienza, prestare i soldi ad un amico è un ottimo modo per perdere sia i soldi che l’amicizia, pazienza per i soldi, ma il resto…)
Oggi invece devo aggiungere che, talvolta, a sorpresa, ritornano, sia i buoni libri che i veri amici. Il trattato sulla stupidità umana di Cipolla è magicamente ricomparso nella mia libreria. Ci resterà poco, temo. E’ difficile cambiare, per quante volte si rimanga scottati. Poter condividere il piacere di certe pagine è inesplicabile ed incomprensibile, per chi non lo conosce. Una sorta di dipendenza; una rete di storie e significati annodati insieme: è il tessuto di certe amicizie che durano nel tempo diventando sempre più resistenti ed importanti. Se poi i libri non tornano, pazienza. Per pochi che siano, quelli che tornano danno una gioia che ricompensa anche delle decine di altre pecorelle smarrite. Grazie piccolo Principe!

sabato 15 marzo 2008

La prima ed ultima libertà: non demandare.

“Per trasformare il mondo, dobbiamo iniziare da noi stessi, e nell’iniziare da noi stessi ciò che più conta è l’intenzione. L’intenzione deve essere di comprendere noi stessi e di non demandare agli altri il compito di trasformarsi…

Questa è la nostra responsabilità, vostra e mia: perché, per quanto piccolo possa essere il mondo in cui viviamo, se siamo in grado di introdurre nella nostra vita quotidiana un punto di vista radicalmente diverso, allora forse potremo influire sul mondo nel suo complesso”.

Krishnamurti
“La conoscenza di se stessi”
In: La prima ed ultima libertà

Cambiare significa conoscersi.

Le parole di un grande uomo e studioso, per riflettere sul cambiamento, quando si è ancora in tempo per percorrerlo…

Dicono che la saggezza per un vecchio consiste nell’accettare rassegnatamente i propri limiti. Ma per accettarli bisogna conoscerli. Per conoscerli, bisogna cercare di darsene una ragione. Non sono diventato saggio. I limiti li conosco bene, ma non li accetto. Li ammetto, unicamente perché non posso farne a meno.

Per capire tutto quello che avrei voluto capire, e mi sono sforzato di capire, ormai è troppo tardi. Ho dedicato gran parte della mia lunga vita a leggere e a studiare un’infinità di libri e di carte, utilizzando anche i più piccoli spazi di una giornata, sin da giovane per “non perdere tempo” (una vera e propria mania, come mi è stato spesso scherzosamente rimproverata dai miei amici che mi conoscono bene). Ora sono giunto alla tranquilla coscienza, tranquilla ma infelice, di essere arrivato soltanto ai piedi dell’albero della conoscenza.

Non ho tratto le soddisfazioni più durature della mia vita dai frutti del mio lavoro, nonostante gli onori, i premi, i pubblici riconoscimenti ricevuti, graditi ma non ambiti e non richiesti. Le ho tratte dalla mia vita di relazione, dai maestri che mi hanno educato, dalle persone che ho amato e mi hanno amato, da tutti coloro che mi sono sempre stati vicini e ora mi accompagnano nell’ultimo tratto di strada.

Norberto Bobbio, De Senectute e altri scritti autobiografici. Einaudi, 1996

mercoledì 12 marzo 2008

La terza parola sulla stupidità

Ho avuto la prova incontrovertibile che la mia comunicazione relativa all'argomento stupidità è stata disfunzionale. Quando l'intenzione comunicativa dell'emittente raggiunge il ricevente, ma viene percepita in modalità opposta, l'errore è a volte dell'emittente. In questo caso specifico l'errore è di omissione e ambiguità. Quando non è eplicitata la posizione dello scrivente in merito ad un testo riportato, in mancanza di informazioni, si assume che concordi con quanto sta riportando. La terza parola è proprio l'intenzione comunicativa che voleva suscitare dibattito, come è avvenuto, senza esprimere un parere preventivo, forse per pigrizia o per resistenza interna.
Lungi da me un elogio della stupidità, concordo con il Prof. Anolli, quando afferma che è inguaribile, perchè chi non apprende dall'esperienza e non riconosce gli errori non può evolvere, rimane fisso, chiuso nella sua gabbia di stupidità. Se può essere vero che alcune scoperte avvengono per caso, è merito di colui che sa riconoscere il vantaggio del caso fortuito e lo replica in situazioni analoghe.
Gli stupidi, che, con grande forzatura, si voglion far passare come funzionali in qualche modo all'evoluzione della specie umana, sono, secondo la mia opinione, la "palla al piede" del progresso umano, l'incarnazione dell'ottusità che paralizza ogni azione dettata da una elaborazione mentale che non possiedono, o risulta fortemente deficitaria.
Inoltre, persino primati etichettati come meno intelligenti di noi imparano dall'osservazione, dall'imitazione e dalla sperimentazione di comportamenti che replicheranno se risultano di qualche concreto vantaggio e abbandoneranno quando non sortiscono alcun effetto utile alla sopravvivenza. Alcuni esseri umani, perseverando negli errori, dovrebbero andare incontro, secondo la logica darwiniana, all'estinzione, non risultando i più adattati all'ambiente che li circonda. Purtroppo, ancora troppi rappresentanti di questa categoria continuano a riprodursi, danneggiando chi intende dirigere la propria vita secondo intelligenza e valori etici.

martedì 11 marzo 2008

Silenzio, musica e tecno-dipendenza.

Mi ha divertito molto, ieri, leggere sulle pagine del New York Times (world trend) riportate da la Repubblica, un articolo a firma di Mark Bittman dal titolo: “Disconnecting in Order to Reconnect”.
Il giornalista denuncia la sua tecno-dipendenza e la difficoltà titanica provata nel tentativo di scollegarsi, per 24 ore, da rete, cellulari, mp3, televisori et similia. Se già un viaggio intercontinentale con spegnimento obbligato della strumentazione elettronica crea sintomi di astinenza, un giorno interno porta a profonde crisi di identità. Staranno tutti bene? Forse sta succedendo un disastro là fuori, qualcuno avrà bisogno di me, cercherà in tutti i modi di mettersi in contatto con me…?

Ma come facevamo prima dell’avvento dei cellulari? Chi eravamo prima? Quanto poco è bastato per trasformarci in piccoli esseri convinti che nulla possa (o debba) succedere se noi non ne siamo immediatamente informati. Tomatis diceva: siamo solo antenne in ascolto dell’universo. Ha ragione. Siamo in ascolto, continuo, di qualcosa che viene da fuori, imponendosi alla nostra attenzione, riempiendoci il tempo e le orecchie… a tal punto che, ogni tanto, viene - da dentro - l’esigenza imponente di silenzio. Faticosissima da raggiungere, ma altrettanto difficile da ignorare.

Non voglio fare l’antitecnologica di turno, non sopporto chi si riempie la bocca con il “come stavamo bene quando stavamo peggio”. Non mi interessa la dietrologia. Viviamo in questo mondo, in questo tempo, inutile perder tempo a rimpiangere un passato che è diventato dolce grazie alle gentili metamorfosi della nostra memoria. I tempi sono quello che sono, offrono opportunità (affordance direbbero gli eruditi), uno può decidere di coglierle o meno, senza vittimizzarsi troppo nell’uno o nell’altro caso.

Ma trovo che abbia ragione Bittman. Per ricordarsi chi siamo, a volte c’è bisogno di staccare. Un grande direttore di orchestra diceva: le note sì, fantastiche… ma il silenzio, quella è la vera magia. Il silenzio che dà senso alla note e le note che danno senso al silenzio, in una dialettica che non può esistere se togliamo uno dei fattori. La musica è fatta di entrambi e, penso, anche la vita.

Ancora due parole sulla stupidità.

Cara Isa, dissento. Talmente forte che lo faccio sul blog. Va bene pensiero positivo, va bene bicchiere mezzo pieno, va bene cercare di trovare (o costruire) una spiegazione causale e giustificatoria per qualsiasi comportamento. Ma alla stupidità no. Puoi citarmi tutte le fonti autorevolissime che vuoi e certamente hai. Puoi dimostrarmi che ha una funzione biologica, fisica, psicologica. Certo, è vero: la stupidità è coerente con la seconda legge della termodinamica: la quantità di entropia nell’universo è in continuo aumento (e la stupidità contribuisce in maniera decisiva).

Ma un elogio della stupidità, Isa, no. Ti voglio bene e ti stimo immensamente, lo sai. Talora ci troviamo in posizioni lontane. Questa volta siamo proprio agli antipodi. Ho cercato inutilmente nella mia libreria (mai prestare i buoni libri: un’altra certezza nella vita a parte la morte e le tasse è che i buoni libri non tornano indietro, mai!) il trattato sulla stupidità di quel grande vecchio saggio, professore di storia medievale ed economica che è stato Carlo Cipolla, che tu citi. In trenta divertentissime pagine (circolate prima solo tra i suoi amici, poi pubblicate, mi sembra da Il Mulino), ha dettato le leggi della stupidità umana. Ricordo che ha stilato percentuali e grafici per dimostrare come il tasso di stupidità sia sempre fisso, nei tempi e nelle diverse civiltà. In qualche modo, ciò è consolante. Secondo lui, gli stupidi sono un male necessario di una certa percentuale della specie umana. Ma un male, Isa, e io sono d’accordo con lui. Non prendiamoci in giro e non troviamo scusanti anche per chi esercita il suo (legittimo, forse necessario, forse universale [?]) cattivo senso. Che poi dal male a volte spunti il bene, è una dinamica dei tempi e della natura (o un segno forse metafisico, chi lo sa) che non può però essere virtuosamente attribuito al male, io penso.

Mi son ricordata anche dell’arguzia di Paul Valéry a proposito di un certo discorrere dei filosofi. Dedico con affetto intellettuale questo pensiero a tutti i difensori della stupidità:
“Il termine “esistenza” piace ai filosofi. Sono convinti che “questo tavolo esiste” voglia dire qualcosa di più che parlare di questo tavolo e basta. Probabilmente, che il tavolo esista o meno, nulla cambia in realtà. Ma ai filosofi piace essere padroni di affermare, se occorre, che il tavolo è un sogno, battendovi sopra con forza. Se però si fanno male non possono dubitare del loro male…
… In verità con “esistenza” intendono, o credono di intendere, un qualche valore che non esiste”.


Da: Paul Valéry, Cattivi Pensieri, Adelphi 2006

lunedì 10 marzo 2008

La stupidità non fa cambiare ma è utile

La stupidità è presente in ognuno di noi e sempre più di quello che pensiamo, è infinita e inguaribile, ma secondo alcuni studiosi, ha in sè una funzione evolutiva: può farci compiere atti avventati errori che, una volta riconosciuti, possono portarci ad un nuovo progresso, ad una nuova conoscenza.
" In quanto atteggiamento irrazionale consente all'uomo di accettare sfide che normalmente non accetterebbe. La deviazione dalla stupidità porta alla genialità e all'invenzione di soluzioni innnovative" spiega Francesco Betti autore de "Le strategie della stupidità".
"Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana, ma riguardo all'universo ho ancora dei dubbi". Così Albert Einstein definiva un problema antico, quanto irrisolto.
Secondo molti esperti, l'uomo porta in sè la stupidità da sempre, ma cosa si intende per stupidità? Di certo non l'opposto di intelligenza, poichè anche gli intelligenti possono commettere azioni da stupidi senza accorgersene o ammetterlo a se stessi. Una definizione di stupidità arriva dallo storico ed economista Carlo Cipolla: una persona stupida è quella che causa un danno ad un'altra persona o a un gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sè, o addirittura subendo una perdita.
Ma solo alcuni sono stupidi? In realtà no, dicono gli esperti. Forse lo siamo tutti. Secondo Gianfranco Livraghi, ricercatore e autore de "Il potere della stupidità", " si tende ad etichettare come stupidi tutti i comportamenti che non rientrano nei nostri shemi mentali ordinari. Ma pensare che solo gli altri siano stupidi è un circolo vizioso."
Questa "nemica invincibile" è stata a lungo studiata per capire da cosa provenga. "In ambito clinico la stupidità è la malattia peggiore, perchè è inguaribile" spiega Luigi Anolli, docente di psicologia della comunicazione all'Università di Milano-Bicocca. E aggiunge:" Lo stupido è portato a ripetere sempre gli stessi comportamenti perchè non è in grado di capire il danno che fa e quindi non può autocorreggersi".
Uno studio dell'Università inglese di Exeter ha identificato un'area nel cervello, nella regione temporale della corteccia, che si attiva per non ripetere un errore già commesso. Se alla base della stupidità ci fosse un'anomalia di questa regione forse un domani sarà possibile correggerla con un intervento.

Fonte: www.focus.it ; www.adnkronos.com

Nodi. Eleganti orditure del pensiero umano.

R.D. Laing è stato un geniale uomo di scienza (difficile limitare ad una disciplina i suoi versatili interessi: logica, psicologia, psichiatria,...). Ha studiato a lungo quei nodi, grovigli, sconnessioni, impasses, circoli viziosi e vincoli che la mente umana crea e nei quali rimane, spesso, impotentemente ingarbugliata. Anche se il tempo passa, anche se il contesto muta, nulla cambia se la nostra mente rimane uguale.

Un tempo, quando Giovanni era piccolo,
voleva star tutto il tempo con la sua mamma
e aveva paura che se andasse via

più tardi, quando fu un po’ cresciuto,
voleva starsene via da sua mamma
e aveva paura che
lei lo volesse avere con sé tutto il tempo

quando fu grande s’innamorò di Maria
e voleva stare con lei tutto il tempo
e aveva paura che se ne andasse via

quando fu un po’ più in là con gli anni,
non voleva stare con Maria tutto il tempo
aveva paura
che volesse stare con lui tutto il tempo, e
che avesse paura
che lui non volesse stare con lei tutto il tempo

Giovanni fa paura a Maria minacciandola di lasciarla
perché ha paura che lei lo lasci.


Fonte: R.D. Laing, Nodi,Einaudi, Nuovo Politecnico 65

domenica 9 marzo 2008

Saggezza popolare e il cambiamento: alcuni proverbi internazionali

Progress is impossible without change; and those who cannot change their minds cannot change anything. George Bernard Shaw

Change is not made without inconvenience, even from worse to better. Richard Hooker

There is a certain relief in change, even though it be from bad to worse; as I have found in travelling in a stage-coach, that it is often a comfort to shift one's position and be bruised in a new place. Washington Irving

There is no way to make people like change. You can only make them feel less threatened by it. Frederick Hayes

The world hates change, yet it is the only thing that has brought progress. George Kettering

There is nothing permanent except change. Greek Proverb

Times change and we change with them. Latin proverb

Everyone thinks of changing the world, but no one thinks of changing himself. Leo Tolstoy

If we don't change the direction we're going, we're likely to end up where we are headed. Chinese proverb

Only three things in life are certain birth, death and change. Arabic proverb