lunedì 31 marzo 2008

Il male oscuro non è più prerogativa dei paesi ricchi.

Tempi di cambiamento, cambiamento dei tempi. E anche dei luoghi.
Mentre in Italia assistiamo ad un movimento (potremmo forse più correttamente parlare di una lobby) che sta operando affinché gli psicologi non abbiano più il diritto (legale) di fare diagnosi, dall’altra parte del mondo si scopre sempre di più l’importanza della psicologia e dell’ascolto. Non mi sto riferendo agli Stati Uniti, anche se certo l’esempio potrebbe essere calzante, pur se scontato. Sto parlando dell’India.

Un continente in fortissima espansione economica, più di un miliardo di persone, una forbice spaventosamente aperta tra chi può vivere nel lusso e nell’agiatezza occidentali e chi non ha nulla nemmeno per sfamarsi. E – potrà stupire molti – il bisogno di ascolto e di supporto psicologico viene espresso non tanto (o non solo) dai primi, bensì soprattutto da questi ultimi. Era stato Gandhi, proprio in quel paese, a ricordare che nemmeno Dio può pretendere di essere ascoltato da una persona che ha fame, a meno che non gli parli di cibo.

Ma i tempi cambiano, come ci spiega un lungo articolo comparso settimana scorsa sulle pagine di scienza e tecnologia della versione internazionale del The New York Times (io l’ho trovato nel supplemento della Sűddeutsche Zeitung di martedì 25 marzo), dal titolo: “In third-world Test, Psychotherapy for All”, a firma di David Kohn.

Un tempo si credeva che chi ha fame non ha tempo (ed energie) per cadere in depressione. Non è più così. La depressione è un male oscuro che sta preoccupando milioni di indiani e soprattutto il sistema sanitario del paese (sembra che in India i disturbi del tono dell’umore abbiano un incremento del 20% l’anno!) È stato lanciato un nuovo programma, chiamato GOA, studiato e coordinato dal dottor Vikram Patel della London School of Hygiene and Tropical Medicine. Si tratta di un trattamento combinato di antidepressivi collegato con un supporto psicologico che ha dimostrato di essere estremamente efficace. Come spiega il dottor Patel, in un continente dove correre è una necessità per arrivare al domani, non c’è più nessuno che ascolta. E se non c’è nessuno che ti ascolta, può capitare che perdi la voglia di correre e, spesso, persino la motivazione per arrivarci, al domani.

Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/mamen/144901429/)

Le storie da vivere, da scrivere, da raccontare.


"Raccontare storie è educare, elevare: non è una pratica oziosa. Se ci sono traffici di storie, per cui due persone si scambiano storie come doni reciproci, è perché ormai si conoscono bene, si sentono affini. E così deve essere. Sebbene alcuni usino le storie come puro intrattenimento, esse sono, nel senso più antico, un’arte curativa. Alcuni a quest’arte sono chiamati, i migliori, a mio avviso, sono coloro che giacquero con la storia e ne scoprirono tutte le parti che si adattano l’un l’altra dentro di sé e in profondità. Occupandoci di storie, maneggiamo energia archetipa, che molto ha in comune con l’elettricità. Può animare e illuminare, ma nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, come qualsiasi medicina, può avere effetti indesiderati. Talvolta le persone che collezionano storie non si rendono conto di che cosa chiedono quando chiedono una storia di questa dimensione. L’archetipo ci cambia; se non c’è cambiamento, non c’è stato vero contatto con l’archetipo.
(…) Invito le persone a tirare fuori la loro storia, perché graffiarsi le mani, dormire sulla terra fredda, brancolare nel buio, e tutte le avventure che capitano, valgono tutto. Su ogni storia deve cadere qualche goccia di sangue, se dev’essere di medicamento.Spero che lascerete che le storie vi accadano, e che le elaborerete, le innaffierete con il vostro sangue e le vostre lacrime e le vostre risa finché non fioriranno, finché voi medesime non fiorirete. Allora vedrete che medicine sono, e dove e quando somministrarle. Questo è il lavoro. L’unico lavoro".

C’era una volta una creatura alla quale il pessimo carattere aveva provocato difficoltà enormi e la perdita di buoni amici. Si avvicinò a un vecchio saggio coperto di stracci e gli domandò: “come potrò riuscire a tenere sotto controllo questo demone della rabbia?” Il vecchio gli consigliò di raggiungere una lontana oasi riarsa nel deserto, di sedere tra gli alberi secchi e di raccogliere l’acqua salmastra per i viaggiatori che vi si fossero avventurati.
E l’uomo, nel tentativo di vincere la sua collera, andò nel deserto fino al posto degli alberi secchi. Per mesi, avvolto in mantelli e nel burnus per proteggersi dalla sabbia, raccolse l’acqua salmastra e la offrì a tutti quelli che passavano. Trascorsero gli anni, e non soffriva più di accessi di collera.
Un giorno arrivò all’oasi morta uno scuro cavaliere, e lanciò un’occhiata altezzosa all’uomo che gli offriva l’acqua in una ciotola. Il cavaliere disprezzò l’acqua torbida, la rifiutò, e riprese a cavalcare.
L’uomo che aveva offerto l’acqua andò subito in collera, tanto da esserne accecato, e afferrò il cavaliere, lo tirò giù dal suo cammello e lo uccise. Immediatamente, con dolore comprese di essere stato consumato dalla collera. Ed ecco che cosa accadde poi.
D’improvviso un altro cavaliere arrivò al galoppo. Guardò in volto il morto ed esclamò: “Allah sia ringraziato! Hai ucciso l’uomo che stava andando ad assassinare il re!” E in quel momento l’acqua torbida dell’oasi si fece limpida e dolce e gli alberi secchi dell’oasi diventarono verdi e si ricoprirono di gemme.


Da: Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi. Il mito della donna selvaggia, Frassinelli, 1993
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sabato 29 marzo 2008

La privacy. L’araba fenice che non c’è… e probabilmente non ci manca nemmeno.

Tra poco saranno messi in commercio i telefonini che diranno – a chi vi chiama o vi risponde – dove siete. Cade definitivamente un altro mito, quello della privacy relativa per lo meno alla propria posizione. Ma la privacy, oggi, esiste ancora? Come si è trasformata nel mondo dell’informazione a 360 gradi, dove se non ci sei virtualmente come informazione non sei nessuno?

La risposta più intelligente e pragmaticamente più funzionale ce la danno i giovani. Gli americani, sempre così veloci nell’etichettare le nuove tendenze, li chiamano millenials. Sono quelle persone (per lo più giovani) sempre collegate ai social networks (Facebook, MySpace et similia) su internet o via cellulare. Hanno rinunciato alla propria privacy quasi di default. Nei social network se non compari con la tua faccia e la tua identità (i tuoi gusti, cosa fai, in cosa credi) non ha senso esserci. Quindi loro hanno fatto due calcoli: esserci garantisce un certo numero di vantaggi immediati (nuovi amici, contatti, opportunità, eccetera eccetera). Non esserci tutela la privacy, la confidenzialità dei dati, ripara da enne possibili ipotetici problemi…. Cos’è meglio tra i due? Ovviamente esserci, nessun dubbio amletico.

Hanno insegnato – a noi vecchi babbioni ancora convinti che la confidenza e la discrezionalità siano un valore – che è inutile farsi tante paranoie mentali. Avere il coraggio di apparire ha tanti vantaggi. Oggi su la Repubblica Michael Rogers, futurologo professionista del New York Times, spiega quali possono essere i servizi messi a disposizione di chi si farà trovare. Tra neanche cinque anni, se sarete abbonati al NYT e vi troverete davanti ad un palazzo o a qualsiasi cosa attiri la vostra attenzione, voi vi collegate via cellulare al NYT e chiedete informazioni. In tempo reale, saranno scaricati sul vostro cellulare articoli, servizi, informazioni legate alla vostra ricerca. In alternativa, avrete un giornale che vi segue. Iniziate a leggerlo la mattina, vi interrompete in un punto, lo passate all’ipod o ad altro sistema elettronico che ve lo legge quando sarete in macchina o sul metro (chiaramente partendo dal punto in cui avete smesso la lettura) e poi potrete farvelo passare in ufficio sul computer, oppure sul palmare o sul cellulare. A vostra scelta. Il futuro è questo: saremo seguiti da un’ombra sempre a nostra disposizione, quasi un cavalier servente che chiede solo di soddisfarci. L’unica cosa che ci viene richiesta: dire chi siamo e lasciargli scoprire dove siamo. Che ne pensate? Tanto, scoprire dove siamo lo scoprirebbero comunque. Forse hanno ragione i più giovani: inutile farsi tante paranoie, prendiamo i vantaggi e per i possibili svantaggi ci attrezzeremo, se serve ;-D

Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/mac_fun/2255115632/)

giovedì 27 marzo 2008

Il valore dei pensieri positivi

Siamo soliti proteggere le nostre case dai ladri. Eppure non prestiamo alcuna attenzione alla casa delle nostre idee e ai pensieri che ospitiamo nella nostra mente. Sembra siamo ignari o indifferenti ad una realtà che ci si palesa ogni giorno: la qualità dei pensieri fa la qualità della nostra vita.
Pensare bene significa pensare costruttivamente. Sono costruttivi i pensieri che suggeriscono energia, salute, amore, progresso, felicità, abbondanza, pace, spiritualità, eccetera. Chi ha la tendenza a guardare e a pensare al lato positivo delle cose, deve accrescere sempre più una felice disposizione d’animo, perché attira a sé quello che guarda e quello che pensa.
I pensieri costruttivi sono i nostri migliori amici. Fanno progredire più rapidamente perché attirano verso la metà di ogni persona che è – o dovrebbe essere -la felicità. Danno serenità, liberano risorse cognitive, creano un circolo virtuoso.

mercoledì 26 marzo 2008

Generalizzare. Il modo migliore per non risolvere mai il problema del qui ed ora.

Continua la serie dei modi in cui possiamo riuscire a complicarci la vita. E’ il turno della generalizzazione. Sembra proprio che abbiamo implicita la tendenza a non accontentarci dei singoli casi o dei singoli momenti della vita: dobbiamo sempre allargare il fuoco. Per generalizzazione gli psicologi intendono l’abitudine (deprecabile e molto dannosa) in base alla quale se facciamo qualcosa di sciocco una volta, concludiamo che siamo sciocchi. Esempio: facciamo un colloquio di lavoro e non ci prendono, significa che valiamo quasi niente. Sosteniamo un esame, va male: siamo incapaci, non ce la faremo mai, meglio smettere subito. La nostra amica pietosa, stufa di vederci sole e tristi, ci presenta un ragazzo, durante l’incontro non scocca il colpo di fulmine, vuol dire che siamo bruttine, non interessiamo nessuno, rimarremo sole per tutta la vita.

Quante volte ragioniamo in questi termini? Che ne siamo consapevoli oppure no, purtroppo questo modello di ragionamento per generalizzazione è assai frequente. È (per lo più) ingiustificato e foriero di delusioni e sofferenza, eppure comune. Se un esame non va bene, non dovremmo mettere in dubbio la nostra intelligenza, il nostro essere e il nostro futuro. Mettiamo in pista solo le pedine che servono. In ogni momento della vita le variabili che contribuiscono al successo o all’insuccesso sono tante, non tutte sotto il nostro controllo, non esageriamo il nostro ruolo, soprattutto non pensiamo che qualsiasi cosa noi facciamo è in gioco tutta la nostra identità.

Una parola soprattutto per le mamme. Quando criticate un comportamento sbagliato di vostro figlio, non ditegli “scemo, stupido, sei incapace, fai sempre disastri, eccetera eccetera”. Non generalizzate i vostri commenti. Rimanete nel presente e commentate quello. Se vostro figlio ha mangiato e non ha riposto il piatto oppure è tornato a casa sporco come un pulcino nero, sgridatelo pure ma fatelo rispetto a quel comportamento (hai fatto una cosa sbagliata, rimedia), non fate nascere dentro di lui il tarlo che – qualunque cosa faccia – è sbagliata e non all’altezza perché lui è sbagliato e non all’altezza. Per voi può essere una piccola differenza, ma la nostra mente è una straordinaria macchina con le sue peculiarità e tende a prendere per vere le cose che ci dicono le persone a cui vogliamo bene, anche se loro pensano di averle dette tra virgolette e senza intenderle davvero.

Generalizzare e trovare le cause nei massimi sistemi, nel carattere o nell’intelligenza o nelle capacità della persona, è quasi sempre un modo per non risolvere il problema creandone uno nuovo, ben più grave. I problemi si possono risolvere, uno alla volta, nella pratica del quotidiano. Trasferirli in un piano astratto vi impedisce qualsiasi contatto e possibilità di azione: è come delegare la propria vita ad un deus ex machina malefico ed inviolabile. Tornare al presente e lavorare su quello significa riprendere controllo della propria vita e cambiare qualcosa, se proprio non ci va, oppure imparare responsabilmente ad accettarlo.

lunedì 24 marzo 2008

Diventare madri a quindici anni: la portata di tale cambiamento



Molto risalto ha avuto la notizia di una ragazzina di quindici anni della provincia di Pordenone che, incinta, ha chiesto l’assistenza di un avvocato per ricorrere contro la decisione dei genitori che volevano farla abortire. La ragazza, già madre a tredici anni a causa di una relazione sempre con lo stesso giovane di circa 20 anni, operaio, non intende interrompere la gravidanza e rinunciare al figlio come già accaduto anni prima, perchè forte del sentimento di “amore totale” nei confronti del giovane fidanzato, e di convinzioni religiose.
I genitori della ragazza, travolti da un tale clamore mediatico, dopo un drammatico incontro con la figlia, il fidanzato e l’avvocato, decidono di aiutare la figlia e di sostenerla nell’ accudimento di questo nuovo nato.
Lo scarno resoconto della cronaca non rende ragione della complessità della situazione che coinvolge la ragazzina, ancora in una fase di crescita e costruzione di identità e la coppia genitoriale alle prese con un doppio compito di cura parentale: nei confronti di una figlia che, nonostante gli eventi, non è ancora entrata nell’età adulta, non ha ancora le risorse intellettive, emotive, pratiche per accudire un neonato, e l’impegno ora inderogabile di prendersi cura di questo innocente creatura.
La mia opinione è che questi genitori non debbano essere giudicati, ma sostenuti, la prova che dovranno affrontare sconvolgerà la loro vita, i loro progetti , i loro sogni per la loro bambina, perché probabilmente la considerano ancora tale.
Per lei avrebbero voluto il meglio: ora devono occuparsi della responsabilità di un’altra vita che dipenderà totalmente da loro, cercando di dare a questo neonato le stesse cure, lo stesso amore che hanno elargito alla loro bambina. Non è un’impresa da poco, questi genitori meritano rispetto e sostegno: dovranno superare crisi, difficoltà e vigilare contemporaneamente su figlia e nipote.
La ragazzina, dopo il clamore, si troverà alle prese con una responsabilità di madre che ancora è tutta da costruire, con difficoltà e paure sempre più concrete, dopo il vagheggiamento del sogno di una famigliola così precocemente costituita. Come sarà condizionata la sua vita, come affronterà lo studio, la ricerca di un lavoro, l’inserimento nel modo degli adulti e della produttività, l’eventuale matrimonio con il suo fidanzato?
L’ipotesi più favorevole è quella di un sostegno forte, importante da parte dei genitori e del fidanzato che attutisca le innumerevoli difficoltà che occorrerà affrontare.
L’augurio migliore a questa ragazzina determinata a diventare adulta molto in fretta è che il suo cammino sia il più a lungo possibile un percorso in cui possa sempre contare sui suoi genitori e sul suo “amore totale”.

Foto: courtesy of Flickr.com
www.flickr.com/keela84/

sabato 22 marzo 2008

L'uomo e il suo cane: una storia d'amore




Dall’alba dei tempi l’uomo ha avuto al suo fianco questo meraviglioso essere vivente a quattro zampe, e la riconoscenza per questo legame unico è stato celebrato con manufatti artistici molto diversi. dai graffiti, alle statue ai templi. Nell’antico Egitto accompagnavano il loro divino padrone nel viaggio dell’aldilà. Nel nostro tempo sono sempre più presenti nelle famiglie italiane, e sono insostituibili per le persone che vivono sole o che soffrono di disagi psichici. La Pet-therapy è ormai certificata da tanti successi e miglioramenti di situazioni considerate altrimenti disperate.
Fa ben sperare l’ aumento della sensibilità nei confronti dei nostri piccoli amici con campagne che intendono combattere l’abbandono durate le vacanze, oppure la soppressione dei levrieri irlandesi con adozioni, o ancora con l’ordinanza della Regione Toscana che permetterà l’ingresso ai cani in tutti i locali pubblici. Si tratta di piccoli gesti che non riescono a colmare il divario tra l’affetto incondizionato che i nostri animali domestici ci donano giorno dopo giorno, e quanto noi esseri umani, dotati di intelligenza superiore siamo in grado di ricambiare quel regalo d’amore che si esprime attraverso la gioia ogni volta che ritorniamo dopo una assenza anche breve, facendoci sentire assolutamente importanti almeno per quel batuffolo di pelo che ci guarda con occhi traboccanti di vero amore.
Penso che chi non abbia mai posseduto un animale domestico si sia privato di un’esperienza che fa davvero cambiare la vita, il rapporto con un cane , un gatto o altre piccole specie, ha un effetto decentrante rispetto all’egoismo di cui siamo permeati, ci costringe a considerare i bisogni, le aspettative, i possibili pensieri di un Altro, diverso da noi, ma con un cuore grande e forse più del nostro.
Chi maltratta gli animali, chi li tortura, chi li sfrutta per scopi di lucro trattandoli come oggetti a perdere e non come esseri viventi è un criminale, socialmente pericoloso. Non a caso un elemento predittivo della tendenza ai crimini seriali citato dalla letteratura criminologica è la crudeltà nei confronti degli animali in età giovanile, naturalmente non è sufficiente a definire la propensione a diventare un serial killer, occorrono molti altri elementi che non sono adatti in questo articolo dedicato all’amore per gli animali, che può far cambiare la vita di chi ha la volontà di accogliere un dono duraturo.
Senza bisogno di parole, il nostro cane ci sta accanto e non si stacca da noi quando abbiamo un momento di sconforto, quando ci sentiamo depressi, quando sembra che tutto il mondo ci crolli addosso, con il calore del suo piccolo corpo cerca di scaldare il nostro cuore assiderato dall’indifferenza e dal dolore, cerca di consolare la nostra anima afflitta dalla cattiveria che sovrasta le opere di bene.
Alcuni sollevano l’obiezione che chi ama troppo gli animali, non ama abbastanza gli umani e quindi è sostanzialmente un emarginato, un solitario.
A tutti coloro che sostengono questa tesi è utile ricordare che l’uomo è l’unico tra le specie viventi che uccide i suoi simili non per sopravivvenza, ma per altri motivi dal piacere, all’interesse. Nel regno animale, abbiamo molto da imparare in termini di solidarietà di specie, di accudimento dei cuccioli, di legami parentali, di accompagnamento alla morte.
Usiamo le nostri dotazioni intellettuali per migliorare la nostra vita, non per autodistruggerci, il nostro animale domestico rimarrà al nostro fianco, e verrà a trovarci anche quando non ci saremo più in questa vita, continuando a vegliarci con immutato amore.

Foto: Isa, Mizar, 2007
Dedicato a Flocky, scomparso nel 1995 e Mizar con me da sei anni

venerdì 21 marzo 2008

Siamo i soli responsabili per ciò che è stato?

Eccovi un altro dei tanti modi che usiamo per rovinarci la vita. Oggi parliamo della curiosa tendenza al determinismo. Gli psicologi ci hanno chiaramente mostrato che il determinismo è il modo “principe” di spiegare (a posteriori) le cose che sono capitate. Dopo che un evento è capitato, siamo tutti più inclini a ritenere normale, giusto, ovvio – praticamente quasi obbligato - quello che è successo. Se tra un mese avrà vinto Veltroni (o Berlusconi), ci sembrerà che le cose erano già ben chiare prima che ci fossero le elezioni: gli indizi c’erano tutti, magari non li avevamo ben messi in ordine, ma era chiaro. Ci sembra quasi che le cose non avrebbero potuto andare diversamente.

Questa tendenza ha un aspetto negativo piuttosto insidioso. È l’aspetto del controllo e della responsabilizzazione (con relativa colpevolizzazione). Per le elezioni, passi. Ma se pensiamo ad un evento della nostra vita personale che ha avuto un esito negativo, tendiamo a sentirci colpevoli e responsabili di quello che è successo. Avremmo potuto prevederlo ed evitarlo, non lo abbiamo fatto: siamo citrulli. Sembra un sillogismo (una linearità logica) perfetto: la dimostrazione che siamo davvero storti (o stolti). Tranquilli, non è così (non sempre almeno ;-)

Si tratta di nuovo di una informazione sbagliata o meglio un modo sbagliato di leggere i dati. Anche se forse ci piacerebbe (ma davvero ci piacerebbe?) sapere che le cose per forza devono andare in un certo modo, in realtà, il senno di poi è determinista per un desiderio (ingenuo e tenero) di poter controllare ciò che non è controllabile: il mondo e gli eventi della vita. Guardando al passato vediamo una linea retta: quella che unisce tutti e solo gli eventi che sono capitati. Il presente, e soprattutto il futuro, invece, non hanno linee rette, ma un’infinità di punti e di linee a zig-zag: una serie di possibilità, di cui solo una o alcune si attueranno.

Siamo un po’ più clementi con noi stessi, quando pensiamo al nostro passato. E’ definitivo e certo solo perché ha esaurito la trasformazione da potenza in atto (direbbe Aristotele), ma questo non deve farci dimenticare che di possibilità ce n’erano tante e noi non abbiamo la responsabilità esclusiva di come sono andate le cose. Dedichiamo piuttosto le energie in maniera più proficua per vivere il presente: è più utile ed infinitamente più piacevole!

giovedì 20 marzo 2008

L'amore ci fa cambiare?


L’amore può irrompere nella nostra vita come la furia di una tempesta, travolgendoci in un uragano di emozioni, oppure può crescere un poco alla volta, trasformando una iniziale amicizia in un legame diverso, profondo che richiede impellente la presenza dell’Altro, oggetto del nostro sogno di vicinanza, di tenerezza, di accoglimento, di vita in comunione di ragione e sentimenti. Quando questo ciclone travolge la nostra routine quotidiana, noi diventiamo diversi, irriconoscibili agli occhi dei nostri cari, che, se ci sono davvero vicini, immediatamente si accorgono del repentino cambiamento.
Le spiegazioni del nostro essere “diversi “sono molteplici e si possono estrapolare a partire dalle teorie di discipline delle scienze umane, dalla neurofisiologia, alla psicologia, alla religione, alla mistica, alla filosofia, alla sociologia.
Quando siamo innamorati abbiamo una percezione alterata della realtà, la nostra stessa coscienza elabora con modalità non usuale e crediamo di vedere, sentire, intuire qualcosa che potrebbe non essere reale, ma frutto della nostra fantasia o dell’elaborazione di informazioni secondo un filtro “rosa”, non oggettivo.
Alcuni studiosi, neurofisiologi, assimilano l’innamoramento ad uno stato allucinatorio, come prodotto dall’assunzione di sostanze, che invece sono prodotte dal nostro stesso organismo in seguito alla sollecitazione ormonale e non soltanto…
Quando osserviamo due innamorati ci salta subito all’occhio quell’atmosfera di fiaba, di isola felice, di separazione dal resto del mondo dei comuni mortali, di distacco dalla realtà.
Lo stato di esaltazione che la nostra mente ci fa provare è come un eccitante che ci scorre nelle vene e ci fa sentire unici, immensi, potenti:l’amore è la nostra forza motrice, senza ci sentiamo persi, piccoli, vulnerabili.
Il sociologo Alberoni in “Innamoramento e amore” definisce questa fase di esaltazione come stato nascente, allo scoppio del colpo di fulmine, ma non è destinata a durare, perché forse troppo dispendiosa per il nostro equilibrio interno e per la normale funzionalità del nostro corpo.
Chi, almeno una volta nella vita, non si è trovato in questa situazione, non può aver sperimentato l’altra faccia della medaglia, il dolore immenso, struggente per la fine di un amore, per la perdita della persona amata.
Sull’amore abbiamo molte ipotesi e poche certezze, una di questa è che l’amore ci fa cambiare, ci fa maturare, ci fa soffrire, ma se non ci fosse sarebbe come non aver veramente vissuto.

Foto: courtesy of Flickr
www.flickr.com/photos/califfo1978/

Essere sacrestani della propria vita.

Le persone meccaniche, per cui la vita è una speculazione difficile, dipendente da un calcolo accurato di mezzi e di metodi, sanno sempre dove vanno, e raggiungono la meta; essi partono col desiderio ideale di essere sacrestani della propria parrocchia e, a qualunque ceto appartengano, essi riescono a divenire sacrestani e niente più.

Un uomo il cui desiderio sia di diventare qualunque cosa all’infuori di se stesso, riesce a ciò invariabilmente. È il suo castigo. Chi vuole una maschera deve portarla.

Oscar Wilde, De Profundis

martedì 18 marzo 2008

Saper vedere.

C’è una grande, abissale differenza tra guardare e vedere. Costantemente guardiamo il mondo intorno a noi, ma cosa vediamo davvero? Quello che ci circonda oppure semplicemente quello che pensiamo di doverci trovare? Chi di noi sarebbe in grado di descrivere, precisamente, il quadro che si trova nella sala riunioni del proprio ufficio o persino sopra il proprio letto; chi saprebbe disegnare in maniera realistica i tratti del viso delle persone che vediamo tutti i giorni, sui mezzi o in ufficio?

Guardiamo sempre, scrutiamo, fissiamo, cerchiamo... ma raramente vediamo. L’arte inizia proprio lì: da uno sguardo diverso dell’artista. E, mi verrebbe da dire, è il punto dove inizia anche la vita, vissuta consapevolmente. Smettendo di cercare quello che pensiamo di volere, per indagare cosa davvero ha da proporci la vita.

Qualche testimonianza diretta dalle parole di artisti:

James Lord ha dato la seguente descrizione della reazione dell’artista Alberto Giacometti allo spazio vuoto: «Si rimise a dipingere, ma dopo qualche minuto si voltò a guardare nel punto dove fino a poco prima c’era stato il busto, come se volesse riesaminarlo, ed esclamò: “Oh, non c’è più!” Gli ricordai che Diego lo aveva portato via, ma egli disse: “Sì, ma io credevo che ci fosse. Ho guardato e d’un tratto ho visto il vuoto. Ho visto il vuoto. E’ la prima volta che mi capita nella vita».
James Lord, A Giacometti Portrait

Conversando con l’amico André Marchand, il pittore francese Hénri Matisse descrisse in questo modo il passaggio da un tipo di percezione ad un altro: «L’uomo, sapete, ha soltanto un occhio che vede e registra tutto, un occhio che è come una straordinaria macchina fotografica che riprende immagini minute, molto nitide, minuscole; e con quell’immagine, l’uomo dice a se stesso, e per un momento è tranquillo. Poi, sovrapponendosi gradualmente all’immagine, compare, senza che lui se ne accorga, un altro occhio, che riprende un’immagine completamente diversa. “E a questo punto il nostro uomo non vede più chiaramente; ha inizio una lotta tra il primo occhio e il secondo, una lotta feroce, e alla fine il secondo occhio ha la meglio, assume il controllo e così la lotta finisce. Ora che ha in mano la situazione, il secondo occhio può continuare il suo lavoro da solo ed elaborare la propria immagine secondo le leggi della visione interiore. Questo occhio speciale si trova qui” disse Matisse, indicando il cervello.
J. Flam, Matisse on Art

“L’artista è il confidente della natura. I fiori dialogano con lui per mezzo dell’aggraziato curvarsi dei loro steli e del loro dischiudersi in armoniose sfumature di colori. Ogni fiore ha per lui una parola cordiale che la natura gli rivolge”.
Auguste Rodin

“E’ per vedere più chiaramente, per vedere ancor più in profondo, ancor più intensamente, ed essere quindi pienamente consapevole e vivo, che disegno ciò che i cinesi chiamano ‘Le diecimila cose’ che ci circondano. Il disegno è la disciplina per mezzo della quale riscopro costantemente il mondo. Ho imparato che le cose che non ho disegnato non le ho mai viste veramente, e che, quando mi metto a disegnare una cosa qualsiasi, essa mi si rivela straordinaria, un puro miracolo”.
Frederick Franck, The Zen of Seeing

“Quando il bambino comincia a disegnare qualcosa di più che semplici scarabocchi – cioè all’età di tre o quattro anni – la sua memoria e il suo procedimento grafico sono già dominati da un insieme consolidato di conoscenze concettuali formulate in termini di linguaggio… Un disegno è così un resoconto grafico di un processo essenzialmente verbale. Man mano che la sua formazione verbale diventa dominante, il bambino abbandona i suoi tentativi grafici per affidarsi quasi totalmente alle parole. Il linguaggio, dopo aver contaminato il disegno, finisce per sopraffarlo completamente”.
Scritto dallo psicologo Karl Bűhler nel 1930

Citazioni tratte da: Betty Edwards, Disegnare con la parte destra del cervello., Longanesi & C, 1996
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/minina007/140529526/)

lunedì 17 marzo 2008

Dobbiamo appropriarci vastamente dell'esistenza, in ogni modo.

Dobbiamo appropriarci vastamente dell’esistenza, in ogni modo. Tutto, anche l’inusitato, deve esserci possibile. Questo è in fondo l’unico ardimento che ci viene richiesto: avere coraggio per ciò che è più strano, più inspiegabile. R.M. Rilke

Il coraggio è un tema di cui si discute raramente, sembra una rimembranza di tempi lontani in cui era un valore tra i più stimati, insieme all'onore e alla fedeltà. Eppure il coraggio è qualcosa che serve, nella vita di tutti, ogni giorno. Il coraggio di andare avanti, di accettare i propri sbagli, di cambiare quello che non funziona, di sfidare la sorte. Il coraggio di essere se stessi.

Sembra che, tramontato il primato valoriale del coraggio, anche la nostra vita sia cambiata. Rilke ci parla del coraggio di investigare ciò che è più strano ed inspiegabile, di andare oltre i confini del noto per esplorare nuovi mondi, dentro e fuori di noi. Nella vita caotica e frenetica che conduciamo tutti noi, ogni giorno, mi chiedo chi si ricorda di farlo. Alzarsi la mattina alle sette o anche prima, salire su mezzi sempre più pieni, correre in ufficio, mangiare un panino al volo, ritornare al lavoro cercando di ignorare la sonnolenza e tentando di accelerare con il pensiero la corsa dell’orologio. E poi di nuovo mezzi, casa, mangiare, dormire… per fortuna non è sempre così, né per tutti. Ma quando, in questo modo di vivere così routinario, ci ricordiamo che la vita potrebbe essere qualcosa di diverso. In fondo viviamo in un mondo privilegiato, abbiamo la possibilità di scegliere. Ma scegliere richiede coraggio. Ed è quello che, forse, ci è stato tolto o ci siamo fatti togliere, orpello inutile in tempi in cui è meglio correre, senza chiedersi perché o per come.

Ma io condivido il pensiero di Rilke. L’unico ardimento che ci viene richiesto è di avere ardimento. Come dire: l’unico modo di vivere è vivere. Ma farlo davvero.

A volte ritornano.

Qualche giorno fa, su questo blog, mi ero lamentata del fatto che prestare i libri è un modo certo per perderli (va meglio che con il denaro, in realtà: per la mia esperienza, prestare i soldi ad un amico è un ottimo modo per perdere sia i soldi che l’amicizia, pazienza per i soldi, ma il resto…)
Oggi invece devo aggiungere che, talvolta, a sorpresa, ritornano, sia i buoni libri che i veri amici. Il trattato sulla stupidità umana di Cipolla è magicamente ricomparso nella mia libreria. Ci resterà poco, temo. E’ difficile cambiare, per quante volte si rimanga scottati. Poter condividere il piacere di certe pagine è inesplicabile ed incomprensibile, per chi non lo conosce. Una sorta di dipendenza; una rete di storie e significati annodati insieme: è il tessuto di certe amicizie che durano nel tempo diventando sempre più resistenti ed importanti. Se poi i libri non tornano, pazienza. Per pochi che siano, quelli che tornano danno una gioia che ricompensa anche delle decine di altre pecorelle smarrite. Grazie piccolo Principe!

sabato 15 marzo 2008

La prima ed ultima libertà: non demandare.

“Per trasformare il mondo, dobbiamo iniziare da noi stessi, e nell’iniziare da noi stessi ciò che più conta è l’intenzione. L’intenzione deve essere di comprendere noi stessi e di non demandare agli altri il compito di trasformarsi…

Questa è la nostra responsabilità, vostra e mia: perché, per quanto piccolo possa essere il mondo in cui viviamo, se siamo in grado di introdurre nella nostra vita quotidiana un punto di vista radicalmente diverso, allora forse potremo influire sul mondo nel suo complesso”.

Krishnamurti
“La conoscenza di se stessi”
In: La prima ed ultima libertà

Cambiare significa conoscersi.

Le parole di un grande uomo e studioso, per riflettere sul cambiamento, quando si è ancora in tempo per percorrerlo…

Dicono che la saggezza per un vecchio consiste nell’accettare rassegnatamente i propri limiti. Ma per accettarli bisogna conoscerli. Per conoscerli, bisogna cercare di darsene una ragione. Non sono diventato saggio. I limiti li conosco bene, ma non li accetto. Li ammetto, unicamente perché non posso farne a meno.

Per capire tutto quello che avrei voluto capire, e mi sono sforzato di capire, ormai è troppo tardi. Ho dedicato gran parte della mia lunga vita a leggere e a studiare un’infinità di libri e di carte, utilizzando anche i più piccoli spazi di una giornata, sin da giovane per “non perdere tempo” (una vera e propria mania, come mi è stato spesso scherzosamente rimproverata dai miei amici che mi conoscono bene). Ora sono giunto alla tranquilla coscienza, tranquilla ma infelice, di essere arrivato soltanto ai piedi dell’albero della conoscenza.

Non ho tratto le soddisfazioni più durature della mia vita dai frutti del mio lavoro, nonostante gli onori, i premi, i pubblici riconoscimenti ricevuti, graditi ma non ambiti e non richiesti. Le ho tratte dalla mia vita di relazione, dai maestri che mi hanno educato, dalle persone che ho amato e mi hanno amato, da tutti coloro che mi sono sempre stati vicini e ora mi accompagnano nell’ultimo tratto di strada.

Norberto Bobbio, De Senectute e altri scritti autobiografici. Einaudi, 1996

mercoledì 12 marzo 2008

La terza parola sulla stupidità

Ho avuto la prova incontrovertibile che la mia comunicazione relativa all'argomento stupidità è stata disfunzionale. Quando l'intenzione comunicativa dell'emittente raggiunge il ricevente, ma viene percepita in modalità opposta, l'errore è a volte dell'emittente. In questo caso specifico l'errore è di omissione e ambiguità. Quando non è eplicitata la posizione dello scrivente in merito ad un testo riportato, in mancanza di informazioni, si assume che concordi con quanto sta riportando. La terza parola è proprio l'intenzione comunicativa che voleva suscitare dibattito, come è avvenuto, senza esprimere un parere preventivo, forse per pigrizia o per resistenza interna.
Lungi da me un elogio della stupidità, concordo con il Prof. Anolli, quando afferma che è inguaribile, perchè chi non apprende dall'esperienza e non riconosce gli errori non può evolvere, rimane fisso, chiuso nella sua gabbia di stupidità. Se può essere vero che alcune scoperte avvengono per caso, è merito di colui che sa riconoscere il vantaggio del caso fortuito e lo replica in situazioni analoghe.
Gli stupidi, che, con grande forzatura, si voglion far passare come funzionali in qualche modo all'evoluzione della specie umana, sono, secondo la mia opinione, la "palla al piede" del progresso umano, l'incarnazione dell'ottusità che paralizza ogni azione dettata da una elaborazione mentale che non possiedono, o risulta fortemente deficitaria.
Inoltre, persino primati etichettati come meno intelligenti di noi imparano dall'osservazione, dall'imitazione e dalla sperimentazione di comportamenti che replicheranno se risultano di qualche concreto vantaggio e abbandoneranno quando non sortiscono alcun effetto utile alla sopravvivenza. Alcuni esseri umani, perseverando negli errori, dovrebbero andare incontro, secondo la logica darwiniana, all'estinzione, non risultando i più adattati all'ambiente che li circonda. Purtroppo, ancora troppi rappresentanti di questa categoria continuano a riprodursi, danneggiando chi intende dirigere la propria vita secondo intelligenza e valori etici.

martedì 11 marzo 2008

Silenzio, musica e tecno-dipendenza.

Mi ha divertito molto, ieri, leggere sulle pagine del New York Times (world trend) riportate da la Repubblica, un articolo a firma di Mark Bittman dal titolo: “Disconnecting in Order to Reconnect”.
Il giornalista denuncia la sua tecno-dipendenza e la difficoltà titanica provata nel tentativo di scollegarsi, per 24 ore, da rete, cellulari, mp3, televisori et similia. Se già un viaggio intercontinentale con spegnimento obbligato della strumentazione elettronica crea sintomi di astinenza, un giorno interno porta a profonde crisi di identità. Staranno tutti bene? Forse sta succedendo un disastro là fuori, qualcuno avrà bisogno di me, cercherà in tutti i modi di mettersi in contatto con me…?

Ma come facevamo prima dell’avvento dei cellulari? Chi eravamo prima? Quanto poco è bastato per trasformarci in piccoli esseri convinti che nulla possa (o debba) succedere se noi non ne siamo immediatamente informati. Tomatis diceva: siamo solo antenne in ascolto dell’universo. Ha ragione. Siamo in ascolto, continuo, di qualcosa che viene da fuori, imponendosi alla nostra attenzione, riempiendoci il tempo e le orecchie… a tal punto che, ogni tanto, viene - da dentro - l’esigenza imponente di silenzio. Faticosissima da raggiungere, ma altrettanto difficile da ignorare.

Non voglio fare l’antitecnologica di turno, non sopporto chi si riempie la bocca con il “come stavamo bene quando stavamo peggio”. Non mi interessa la dietrologia. Viviamo in questo mondo, in questo tempo, inutile perder tempo a rimpiangere un passato che è diventato dolce grazie alle gentili metamorfosi della nostra memoria. I tempi sono quello che sono, offrono opportunità (affordance direbbero gli eruditi), uno può decidere di coglierle o meno, senza vittimizzarsi troppo nell’uno o nell’altro caso.

Ma trovo che abbia ragione Bittman. Per ricordarsi chi siamo, a volte c’è bisogno di staccare. Un grande direttore di orchestra diceva: le note sì, fantastiche… ma il silenzio, quella è la vera magia. Il silenzio che dà senso alla note e le note che danno senso al silenzio, in una dialettica che non può esistere se togliamo uno dei fattori. La musica è fatta di entrambi e, penso, anche la vita.

Ancora due parole sulla stupidità.

Cara Isa, dissento. Talmente forte che lo faccio sul blog. Va bene pensiero positivo, va bene bicchiere mezzo pieno, va bene cercare di trovare (o costruire) una spiegazione causale e giustificatoria per qualsiasi comportamento. Ma alla stupidità no. Puoi citarmi tutte le fonti autorevolissime che vuoi e certamente hai. Puoi dimostrarmi che ha una funzione biologica, fisica, psicologica. Certo, è vero: la stupidità è coerente con la seconda legge della termodinamica: la quantità di entropia nell’universo è in continuo aumento (e la stupidità contribuisce in maniera decisiva).

Ma un elogio della stupidità, Isa, no. Ti voglio bene e ti stimo immensamente, lo sai. Talora ci troviamo in posizioni lontane. Questa volta siamo proprio agli antipodi. Ho cercato inutilmente nella mia libreria (mai prestare i buoni libri: un’altra certezza nella vita a parte la morte e le tasse è che i buoni libri non tornano indietro, mai!) il trattato sulla stupidità di quel grande vecchio saggio, professore di storia medievale ed economica che è stato Carlo Cipolla, che tu citi. In trenta divertentissime pagine (circolate prima solo tra i suoi amici, poi pubblicate, mi sembra da Il Mulino), ha dettato le leggi della stupidità umana. Ricordo che ha stilato percentuali e grafici per dimostrare come il tasso di stupidità sia sempre fisso, nei tempi e nelle diverse civiltà. In qualche modo, ciò è consolante. Secondo lui, gli stupidi sono un male necessario di una certa percentuale della specie umana. Ma un male, Isa, e io sono d’accordo con lui. Non prendiamoci in giro e non troviamo scusanti anche per chi esercita il suo (legittimo, forse necessario, forse universale [?]) cattivo senso. Che poi dal male a volte spunti il bene, è una dinamica dei tempi e della natura (o un segno forse metafisico, chi lo sa) che non può però essere virtuosamente attribuito al male, io penso.

Mi son ricordata anche dell’arguzia di Paul Valéry a proposito di un certo discorrere dei filosofi. Dedico con affetto intellettuale questo pensiero a tutti i difensori della stupidità:
“Il termine “esistenza” piace ai filosofi. Sono convinti che “questo tavolo esiste” voglia dire qualcosa di più che parlare di questo tavolo e basta. Probabilmente, che il tavolo esista o meno, nulla cambia in realtà. Ma ai filosofi piace essere padroni di affermare, se occorre, che il tavolo è un sogno, battendovi sopra con forza. Se però si fanno male non possono dubitare del loro male…
… In verità con “esistenza” intendono, o credono di intendere, un qualche valore che non esiste”.


Da: Paul Valéry, Cattivi Pensieri, Adelphi 2006

lunedì 10 marzo 2008

La stupidità non fa cambiare ma è utile

La stupidità è presente in ognuno di noi e sempre più di quello che pensiamo, è infinita e inguaribile, ma secondo alcuni studiosi, ha in sè una funzione evolutiva: può farci compiere atti avventati errori che, una volta riconosciuti, possono portarci ad un nuovo progresso, ad una nuova conoscenza.
" In quanto atteggiamento irrazionale consente all'uomo di accettare sfide che normalmente non accetterebbe. La deviazione dalla stupidità porta alla genialità e all'invenzione di soluzioni innnovative" spiega Francesco Betti autore de "Le strategie della stupidità".
"Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana, ma riguardo all'universo ho ancora dei dubbi". Così Albert Einstein definiva un problema antico, quanto irrisolto.
Secondo molti esperti, l'uomo porta in sè la stupidità da sempre, ma cosa si intende per stupidità? Di certo non l'opposto di intelligenza, poichè anche gli intelligenti possono commettere azioni da stupidi senza accorgersene o ammetterlo a se stessi. Una definizione di stupidità arriva dallo storico ed economista Carlo Cipolla: una persona stupida è quella che causa un danno ad un'altra persona o a un gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sè, o addirittura subendo una perdita.
Ma solo alcuni sono stupidi? In realtà no, dicono gli esperti. Forse lo siamo tutti. Secondo Gianfranco Livraghi, ricercatore e autore de "Il potere della stupidità", " si tende ad etichettare come stupidi tutti i comportamenti che non rientrano nei nostri shemi mentali ordinari. Ma pensare che solo gli altri siano stupidi è un circolo vizioso."
Questa "nemica invincibile" è stata a lungo studiata per capire da cosa provenga. "In ambito clinico la stupidità è la malattia peggiore, perchè è inguaribile" spiega Luigi Anolli, docente di psicologia della comunicazione all'Università di Milano-Bicocca. E aggiunge:" Lo stupido è portato a ripetere sempre gli stessi comportamenti perchè non è in grado di capire il danno che fa e quindi non può autocorreggersi".
Uno studio dell'Università inglese di Exeter ha identificato un'area nel cervello, nella regione temporale della corteccia, che si attiva per non ripetere un errore già commesso. Se alla base della stupidità ci fosse un'anomalia di questa regione forse un domani sarà possibile correggerla con un intervento.

Fonte: www.focus.it ; www.adnkronos.com

Nodi. Eleganti orditure del pensiero umano.

R.D. Laing è stato un geniale uomo di scienza (difficile limitare ad una disciplina i suoi versatili interessi: logica, psicologia, psichiatria,...). Ha studiato a lungo quei nodi, grovigli, sconnessioni, impasses, circoli viziosi e vincoli che la mente umana crea e nei quali rimane, spesso, impotentemente ingarbugliata. Anche se il tempo passa, anche se il contesto muta, nulla cambia se la nostra mente rimane uguale.

Un tempo, quando Giovanni era piccolo,
voleva star tutto il tempo con la sua mamma
e aveva paura che se andasse via

più tardi, quando fu un po’ cresciuto,
voleva starsene via da sua mamma
e aveva paura che
lei lo volesse avere con sé tutto il tempo

quando fu grande s’innamorò di Maria
e voleva stare con lei tutto il tempo
e aveva paura che se ne andasse via

quando fu un po’ più in là con gli anni,
non voleva stare con Maria tutto il tempo
aveva paura
che volesse stare con lui tutto il tempo, e
che avesse paura
che lui non volesse stare con lei tutto il tempo

Giovanni fa paura a Maria minacciandola di lasciarla
perché ha paura che lei lo lasci.


Fonte: R.D. Laing, Nodi,Einaudi, Nuovo Politecnico 65

domenica 9 marzo 2008

Saggezza popolare e il cambiamento: alcuni proverbi internazionali

Progress is impossible without change; and those who cannot change their minds cannot change anything. George Bernard Shaw

Change is not made without inconvenience, even from worse to better. Richard Hooker

There is a certain relief in change, even though it be from bad to worse; as I have found in travelling in a stage-coach, that it is often a comfort to shift one's position and be bruised in a new place. Washington Irving

There is no way to make people like change. You can only make them feel less threatened by it. Frederick Hayes

The world hates change, yet it is the only thing that has brought progress. George Kettering

There is nothing permanent except change. Greek Proverb

Times change and we change with them. Latin proverb

Everyone thinks of changing the world, but no one thinks of changing himself. Leo Tolstoy

If we don't change the direction we're going, we're likely to end up where we are headed. Chinese proverb

Only three things in life are certain birth, death and change. Arabic proverb

The Butterfly


I, Chuang Tzu, once dreamed that I was a butterfly, one fluttering here and there, without worries and desires, unconscious of my humanity. Suddenly, I awoke; and there I lay, again “myself”. Now I did not know if I was thus a man who dreamed he was a butterfly, or am I now a butterfly who is dreaming that he is a man. Between man and butterfly is a boundary. The crossing over is called transformation.


Da: I and Tao. Martin Buber’s encounter with Chuang Tzu, by Jonathan R. Herman, State University Of NY Press, 1996

Quando il terzo non è dato. La logica sillogistica del cambiamento che non c’è.

Mi ha sempre incuriosito la grande differenza tra le culture occidentali e quelle orientali. Penso che una delle maggiori diversità riguardi proprio il cambiamento e il modo stesso di concepirlo.
Al potente mondo occidentale, il cambiamento più di tanto non piace. Seduce ed entusiasma la trasformazione della natura, il sentirsi artefici della propria ricchezza, il vedersi a capo del mondo. Ma l’idea che una persona cambi risulta quasi intollerabile, oltre che impossibile e comunque non auspicabile. Quante volte mi sono infilata in conversazioni inconcludenti con persone (soprattutto uomini) che ritengono il cambiamento non attuabile: se una persona è un ciuco, tale rimarrà per tutta la vita. Nella vita c’è non cambiamento, ma scivolamento verso i propri tratti dominanti: i tuoi difetti risulteranno via via più accentuati, i tuoi pregi andranno (ma non è detto) ad intensificarsi. Più di questo non si può avere.

Quando parlo con degli amici orientali, invece, trovo una situazione diametralmente opposta. Nessuna volontà di cambiare il mondo: quello va bene così com’è, un’arroganza inutile cercare di modificarlo. Apertura massima, invece, per cambiare e cambiarsi. Anzi, come diceva Confucio: se non vedi una persona da qualche giorno, appena la ri-incontri osservala bene per capire cosa è cambiato in lei.

Può essere, mi sono detta spesso, che alla base di queste diverse posizioni ci sia anche un fraintendimento linguistico. Forse dietro ad una stessa etichetta linguistica noi abbiamo infilato a forza concetti diversi e, come si sa, le parole costruiscono significati e ci consolidano nel nostro modo di vedere il mondo. L’esquimese con le sue nove parole per designare la neve riesce a cogliere delle differenze che noi, con la nostra unica parola, non riusciamo neanche a vedere. Analogamente, può essere che noi occidentali non riusciamo ad accorgerci delle piccole modificazioni perché non rientrano nel nostro vocabolario percettivo, immaginativo e concettuale. Si trova quello che si cerca: se noi sappiamo che le persone non cambiano, non le osserveremo per rivelare quello che diamo per scontato non possa esserci. Anche perché, se ci accorgiamo che la persona non è quella che ci sembrava, non diamo la colpa ad un eventuale cambiamento, bensì al fatto che non avevamo visto bene sin dall’inizio. Oppure penseremo che la persona ci ha ingannati.

È una situazione tristemente ripetuta, per esempio, al termine delle storie d’amore: duro l’ammettere che non ci sia più l’amore, più facile convincersi che, in fondo in fondo, evidentemente non c’è mai stato. Incompatibilità caratteriale: quella persona per noi non poteva andar bene, sin dall’inizio, dovevamo accorgercene.. Usiamo cioè un pensiero controfattuale: se le conseguenze di un atto non ci piacciono, ci convinciamo che erano le premesse sbagliate e per questo si è arrivati a quelle conclusioni. Se avessi studiato di più, all’esame sarei andato bene; se lei fosse stata la persona che credevo, non avrebbe fatto questa cosa. Riduciamo il mondo a macrovariabili, per cullare l’illusoria certezza di saperlo e poterlo controllare. Adottiamo la rassicurante logica sillogistica per cui se “a” allora “b”, se “non b” allora “non a”. Il terzo non è dato, né concepito: una persona non può essere “a” e “b” insieme, non può essere buona o cattiva, né trasformarsi con il tempo. Mi verrebbe da dire: che bello se la vita fosse davvero così cristallina, chiara, rassicurante. Un secondo, perché poi penso: ma davvero? Sarebbe davvero meglio se la vita fosse davvero così cristallina, chiara, rassicurante?

sabato 8 marzo 2008

Il potere è in te. Parola di Louise Hay.

Il potere (di cambiare, migliorarsi, farcela contro le sfide difficili) è in noi. Di questo è convinta Louise L. Hay, scrittrice molto conosciuta ed amata nel mondo anglosassone. La sua carriera e il suo successo editoriale affondano nell’esperienza più provante e dura: un cancro, diagnosticato come incurabile, al quale Louise non si è rassegnata. Ha lottato, è riuscita a sopravvivere ed ora diffonde il suo messaggio di speranza. E' a capo di un impero presente in settanta paesi al mondo (Hay House), con milioni di libri venduti e tradotti in ventiquattro lingue.

Il messaggio di tutti i suoi libri e dei corsi di auto-aiuto è semplice: lei ce l’ha fatta ed è convinta che il potere di farcela, nella vita, sia nelle nostre mani.

Dieci i segreti per riuscirci, presentati nei suoi libri. Il decalogo è questo:
1) smettere di criticarsi. Si può cambiare, ma il primo passo è smettere di disprezzarsi.
2) smettere di spaventarsi
3) siamo dolci, pazienti con noi stessi e trattiamo la nostra mente come un giardino: i pensieri negativi vanno estirpati, come le erbacce
4) tutti commettiamo errori, perdoniamoci, impariamo, meditiamo. Siamo gentili anche con la nostra mente
5) lodiamo noi stessi. Impariamo ad accettare il bene, anche se pensiamo di non meritarlo
6) volersi bene significa aiutarci: chiedendo soccorso in caso di necessità, diventiamo infatti più forti
7) amiamo la nostra negatività. Indipendentemente dal tipo di situazione negativa in cui ci troviamo, ricordiamoci che c’è uno scopo.
8) curiamo il nostro corpo: è la casa in cui viviamo
9) per identificare la causa di un problema che ci impedisce di volerci bene, operiamo di fronte allo specchio
10) impariamo a volerci bene da subito. E a visualizzare positivamente il nostro amore e la nostra forza.

Louise L. Hay, Il potere è in te, Armenia

venerdì 7 marzo 2008

Conoscersi è guarire.

"La consapevolezza di come si cresce e si cambia nell’arco della vita è fondamentale. Moshe Feldenkreis era estremamente critico nei confronti dei concetti statici, a qualsiasi tipo di contesto appartenessero.

Dalla nascita alla morte, si cambia in continuazione e molti problemi derivano dal tentativo di ignorare o negare il cambiamento. Ogni cellula del corpo muore e viene sostituita nel giro di ore, giorni e settimane.

Tradizionalmente, ciò su cui si concentra l’interesse sono i cambiamenti non desiderati, mentre invece la maggior parte dei processi biologici è reversibile quando ci sono le condizioni giuste. Persino la forma delle ossa può cambiare se il calcio viene depositato e assorbito di nuovo ed è favorendo questo risultato che l’esercizio fisico può prevenire o rendere reversibile l’osteoporosi. Finché una persona è viva, può imparare e guarire ogni giorno, fisicamente, neurologicamente, psicologicamente, mentalmente e spiritualmente".


Da: Steven Shafarman, Conoscersi è guarire, Astrolabio.

giovedì 6 marzo 2008

La famiglia. Un fiore delicato.

"Il fiore è un meraviglioso pezzetto di vita; anche se noi esseri umani riusciamo a piantarne il seme e a favorirne il processo di crescita, sinora non siamo riusciti a creare un fiore vivente. Possiamo incrociare, trapiantare, coltivare e innestare i fiori, ma non possiamo creare un solo fiore dal nulla, a meno che sia privo di vita, sia fatto di carta o di plastica. Un’altra caratteristica di fiori e piante è che crescono meglio nel loro ambiente originario: se anche riescono a crescere in un altro ambiente, occorre da parte di chi li coltiva un’assistenza assai maggiore perché un fiore possa avere la stessa vigoria e la stessa possibilità di realizzare la sua piena potenzialità.

Ma può avvenire che persino trascorrendo l’intero ciclo vitale nel proprio ambiente naturale il fiore non cresca regolarmente e abbia pochi germogli. A volte questi fiori selvatici sono talmente compressi da soffocarsi a vicenda, ammalarsi e morire. I fiori raggiungono il punto di massima crescita quando sono alimentati in modo appropriato nel loro habitat naturale e hanno spazio a sufficienza. Noi siamo convinti che il processo che abbiamo descritto per i fiori vale anche, sotto molto aspetti, per gli esseri umani e anche per la famiglia."

Da: Richard Bandler, John Grinder, La struttura della magia. Astrolabio, 1975

mercoledì 5 marzo 2008

Cambiare... ma siamo davvero alla guida della nostra vita?

Dal Prologo di Jung alla sua biografia: “Noi siamo un processo psichico che non controlliamo, o che dirigiamo solo parzialmente. Di conseguenza, non possiamo pronunciare alcun giudizio conclusivo su noi stessi o sulla nostra vita. Se lo facessimo, conosceremmo tutto, ma gli uomini non conoscono tutto, al più credono solamente di conoscerlo. In fondo, noi non sappiamo mai come le cose siano avvenute. La storia di una vita comincia da un punto qualsiasi, da qualche particolare che per caso ci capita di ricordare; e quando essa era a quel punto, era già molto complessa. Noi non sappiamo dove tende la vita: perciò la sua storia non ha principio, e se ne può arguire la meta solo vagamente.
La vita umana è un esperimento di esito incerto. È un fenomeno grandioso solo in termini quantitativi. Individualmente, è così fugace, così insufficiente, da doversi letteralmente considerare un miracolo che qualcosa possa esistere e svilupparsi. Fui colpito da questo fatto tanto tempo fa, quando ero un giovane studente di medicina, e mi sembra sempre miracoloso di non venir annientato prematuramente.
La vita mi ha sempre fatto pensare a una pianta che vive del suo rizoma: la sua vera vita è invisibile, nascosta nel rizoma. Ciò che appare alla superficie della terra dura solo un’estate, e poi appassisce, apparizione effimera. Quando riflettiamo sull’incessante sorgere e decadere della vita e delle civiltà, non possiamo sottrarci a un’impressione di assoluta nullità: ma io non ho mai perduto il senso che qualcosa vive e dura oltre questo eterno fluire. Quello che noi vediamo è il fiore, che passa: ma il rizoma perdura.
In fondo, le sole vicende della mia vita che mi sembrano degne di essere riferite sono quelle nelle quali il mondo imperituro ha fatto irruzione in questo mondo transeunte (…) Senza una risposta e una soluzione dall’interno, le vicende e le complicazioni della vita, alla fin fine, significano poco. Le circostanze esterne non possono sostituire le esperienze interiori: perciò la mia vita è stata particolarmente povera di eventi esteriori. Di questi non posso dire molto, e, se lo facessi, avrei l’impressione di fare una cosa vana e inconsistente. Posso comprendere me stesso solo nei termini delle vicende interiori:sono queste che hanno caratterizzato la mia vita, e di queste tratta la mia “autobiografia”.

Da: Carl Gustav Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, BUR, 1992

martedì 4 marzo 2008

le infermiere cambiano: da oggetto del desiderio a seduttrici

Dalla cronaca del 4 marzo: in Gran Bretagna un sondaggio della rivista Nursing Times rivela che una infermiera su dieci ritiene non ci sia nulla di sbagliato a sedurre un paziente.
La notizia ha fatto scalpore oltre la Manica, ma nel nostro Paese, qual è il significato nell’immaginario collettivo sulla figura professionale dell’infermiera?
In Italia oltre 350000 infermieri iscritti agli albi professionali di categoria potrebbero interrogarsi su quale sia la percezione della loro immagine sociale nella collettività; nel 2002 un convegno a Milano tentò una ricognizione nella cinematografia mondiale a confronto con quella italiana e i risultati furono in linea con quanto dopo oltre sei anni continua a resistere: l’infermiera sexy ha ancora appeal, il turbamento erotico offusca l’alone di professionalità che la categoria a fatica sta cercando di rendere tangibile con corsi di laurea che certifichino le competenze.
Il discredito che getta una notizia simile sulla moralità di una categoria professionale è difficile da controbilanciare perché si ancora su stereotipi consolidati da decenni nel costume italiano, rinforzati da tutto il filone del cinema sexy degli anni 70’.
Titoli come “L’infermiera di notte” “L'infermiera nella corsia dei militari” sono evocativi di un’epoca della società del nostro Paese che credevamo definitivamente finita.
Vorrei sentire la voce delle infermiere italiane e dei loro colleghi, sempre più numerosi, per capire se il ritorno al passato colpisca anche l’immagine che hanno di se stessi, perché il presupposto di un cambiamento di stereotipo (difficilissimo) avviene soltanto se è interiorizzato dai diretti interessati prima che nel contesto culturale di appartenenza.

Espiazione. Storie di cambiamenti e mondi paralleli.

Tratto da un romanzo di Ian McEwan, Espiazione è un film di grande forza drammatica e poesia costruito attorno alla bugia (non si sa quanto inconsapevole) di un’adolescente che incolpa l’(innocente) amante della sorella di un tentato stupro. Una trama semplice, imperniata su una serie di piccoli e grandi cambiamenti che interagiscono come in un gioco di matrioske.
Il primo cambiamento nel film è legato al riconoscimento e conseguente accettazione di un sentimento sconveniente, a lungo osteggiato e negato perché socialmente inopportuno: la passione che fa capolino nella vita e ne sovverte ordine ed equilibrio. E’ la prima pedina di un domino, forse la causa scatenante, il battito d’ali della farfalla in Michigan che crea un tornado a Shangai, ovvero l’entrata in scena – come nelle tragedie greche – del deus ex machina: il destino o caso, ospite a sorpresa, non invitato e per lo più non gradito, della nostra vita. Una sera, dopo cena, il buio della notte favorisce un approccio pesante, che forse è un tentativo di stupro o forse no, certamente lo è agli occhi di una ragazzina che non si è ancora costruita un suo alfabeto sessuale. Accusa un innocente, di cui è invaghita con l’assolutezza dell’adolescenza, un giovane uomo con la colpa di averle preferito la sorella e di parlare la lingua del corpo e della passione, ben lontana da quella lieve e romantica delle commedie d’amore che lei scrive.
Luci ed ombre della vita e dei suoi sentimenti, soprattutto dell’amore, che è fatto (anche) di possesso e di violenza, di gelosia ed invidia, di voli e cadute. Ma un’adolescente questo spesso non lo sa, crede nell’assoluto: l’assoluto bene, l’assoluto amore, l’assoluta verità. In un mondo che cambia e si dissolve, ci vogliono delle regole, dei punti fissi a cui arpionarsi per attenuare la caduta e gestire l’angoscia del nulla. E’ in fondo facile, fors’anche utile, credere che tutto il mondo non sia che un palcoscenico con ruoli stabiliti, attori che leggono la parte e poi se ne vanno, tutto sotto il controllo onnipotente di un regista che può cambiare scenografie e finali a sua discrezione. E ci prova la ragazzina diventata donna e poi anziana, scrive nuove trame per vecchi attori, cercando uno spazio per l’espiazione di colpe che non trovano pace.
Cambiare una vita troppo dolorosa può essere anche costruirsi mondi paralleli, in cui le cose vanno come vogliamo noi, come riteniamo che sarebbe giusto andassero. Dobbiamo però essere molto abili nella creazione di questi mondi, perché a volte prendono il sopravvento e diventiamo responsabili non solo di ciò che capita nella vita reale, ma anche in quella immaginata e immaginaria. La colpa può diventare duplice: non aver fatto e non aver mai accettato di non aver fatto, vivere tutta la vita facendo finta che, come se. Forse aveva ragione Calderon de La Barca, la vita è sogno, talora incubo, talaltra un unico minuto di lucidità dopo il risveglio. Quello che può bastare per chiedere scusa o per renderci conto di essere in fondo solo piccoli generatori di disordine ed entropia in un mondo che è fatto di disordine ed entropia sempre crescenti.

Apri la tua stanza del tesoro

Dakju fece visita al maestro Baso in Cina.
Baso domandò: “Che cosa cerchi?”
L’illuminazione” rispose Daiju.
Tu hai la tua stanza del tesoro. Perché vai in giro a cercare?” domandò Baso
Daiju domandò: “Dov’è la mia stanza del tesoro?”
Baso rispose: “Quello che stai domandando è la tua stanza del tesoro”.
Daiju fu illuminato. Da quel momento, esortava sempre i suoi amici:
Aprite la vostra stanza del tesoro e usate quei tesori.

Da: 101 storie zen. A cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, Adelphi, 1973

lunedì 3 marzo 2008

YouTube - The Evolution Of Beauty

YouTube - The Evolution Of Beauty

Immagine del corpo e cambiamento sociale

Che cos’è la bellezza? Qualcosa di assoluto ed oggettivo o piuttosto una proprietà relativa, nascosta più negli occhi di chi guarda che non una caratteristica delle cose o persone? Se guardiamo gli artefatti culturali ed artistici del passato, sembra legittimo propendere per una mutevolezza del concetto di bellezza. Abbiamo difficoltà, oggi, a trovare bella e sensuale la prosperosa venere preistorica (vedi immagine lato) o le donne giunoniche disegnate con amore da Rubens. Anche se gli psicologi evoluzionisti ci insegnano che la donna “vincente” da sempre è quella con forme morbide e colorito roseo, attributi che indicano salute e quindi maggiore capacità procreativa, basta aprire un qualsiasi giornale per capire che non è proprio così. Sembra quasi che oggi l’immagine si sia staccata dal corpo e, preso il sopravvento, vada in giro con le sue gambe. Sin da quando giochiamo con le bambole, ci abituiamo alla sottile bellezza della Barbie, una raffigurazione della donna tanto irreale che – da quanto è stato dimostrato – se fosse viva non riuscirebbe a camminare o muoversi (bacino troppo stretto, baricentro e proporzioni incompatibili con la deambulazione verticale).
Su Youtube gira da qualche tempo un interessante video (Evolution of beauty, riportato prima di questo post) che dimostra come in pubblicità non ci si limita più a prendere splendide modelle per presentarle al meglio. Le loro caratteristiche vengono modificate con abili ritocchi di Photoshop che da qualche parte aggiungono (seno, occhi), in altre tagliano (gote, vita, fianchi). Il confronto di realtà per qualsiasi donna oggi è con ideali irraggiungibili perché inesistenti. Le frontiere della possibilità non sono dettate dalla natura, dalla cosmetica (“trucco e parrucco”), dalla chirurgia plastica, dall’abilità del fotografo o del regista.
I casi di anoressia, l’alto numero di interventi chirugici estetici, il ricorso a cure cosmetiche (punturine, botox, dermoabrasioni, eccetera) dimostrano che prendersi cura di sé oggi è un lavoro a tempo pieno, indipendentemente dall’età. E ciononostante, avere un’immagine del corpo positiva diventa sempre più difficile. Per immagine del corpo si intende il modo in cui la persona si guarda, il tipo di immagine che si ha di se stessi. Si vedono ragazze, anche carine, che si sottovalutano completamente, oppure donne ancora affascinanti che si trasformano in sfingi immobili per nascondere rughe ed età. Non si rendono conto del fatto che cercano di classificare il loro aspetto nei termini degli sguardi altrui. Spesso, purtroppo, “pensano” a un sintomo di qualche tipo che dimostri loro senza possibilità di appello che non sono all’altezza. Come non capirle? E – soprattutto - come cambiare per non diventare tutti solo gli avatar di noi stessi?

domenica 2 marzo 2008

La scuola e gli episodi di violenza giovanile: cambiare visione per comprendere

I preadolescenti violenti che hanno commesso reati sono ancora tutti nella fascia d’età dell’obbligo scolastico, quindi la scuola rappresenta spesso il teatro e l’ambiente privilegiato in cui effettuare un’indagine più approfondita.
I ragazzi che manifestano comportamenti devianti hanno anche con la scuola ed il ruolo di studenti un rapporto difficile, segnato da bocciature, incapacità di apprendimento e studio, problemi di inserimento nel gruppo classe e con gli insegnanti. Il fallimento scolastico è una costante che spesso precede il tratto trasgressivo.
La capacità di pensare è strettamente collegata alla possibilità di sentire ed entrare in contatto con il proprio mondo affettivo: è la capacità di contenere e simbolizzare l’affettività che consente di apprendere; per i preadolescenti che commettono azioni devianti spesso non è possibile entrare in contatto con tale fatica mentale, confrontandosi con la propria fragilità emotiva.
La scuola così da un lato funziona come cassa di risonanza del disagio, perché chiama ad un compito specifico per quella fase di crescita che non può essere assolto in maniera adeguata, dall’altro può rappresentare il luogo in cui tale disagio può essere espresso nella speranza di essere accolto.
Questi ragazzi vengono spesso bocciati in prima e ancora più in seconda media, quando il divario con i compagni diventa ineludibile ed è a questo punto che il Sé narcisisticamente fragile e mortificato dal fallimento, può spingere il ragazzo a cercare altrove la propria rivalsa ed il proprio successo.
Si abdica allora al proprio ruolo di studente, troppo complesso da realizzare e si cerca sostegno nel gruppo maschile, formato da coetanei altrettanto fallimentari nell’apprendimento scolastico, alla ricerca di un proprio modello di socializzazione e d’identità virile contro gli adulti. In questa fase evolutiva dell’adolescente siamo ancora agli esordi della costruzione dell’identità, ciò consente agli educatori, agli psicoterapeuti di trovare due percorsi ugualmente aperti ed attivi, l’uno sul versante familiare, in cui si possono trovare ragazzini dipendenti e iperprotetti, talvolta passivi, l’altro su quello extrafamiliare e di gruppo.
Il gruppo dei pari è uno dei contesti importanti di attuazione dei comportamenti trasgressivi, un ambito di analisi privilegiato.
Il gruppo tende a diventare contenitore dei problemi dei singoli, e spazio in cui prendono forma collettivamente gli agiti trasgressivi ma anche i bisogni di riconoscimento non soddisfatti e le speranze di crescita che individualmente non trovano sbocchi praticabili.
Sia i singoli ragazzi che i gruppi costituiscono realtà molto differenti tra loro, ed appare rischioso riunire sotto lo stereotipo del “piccolo delinquente” ogni preadolescente che commette reati, così come risulta improprio raccogliere sotto l’icona della banda deviante ogni agito commesso in gruppo.
Il percorso di ricostruzione di senso deve essere fatto tenendo conto delle storie singole e delle ragioni soggettive, ma cercando anche di trovare il significato di gruppo di ciò che è avvenuto, individuando sentimenti, ruoli, pulsioni che vanno al di là della percezione immediata e della consapevolezza di ognuno dei membri.
La restituzione di senso può aiutare a comprendere il percorso simbolico di ognuno ed evitare rigide semplificazioni dei ruoli fissi di leader e gregari che favoriscono lo scarico delle responsabilità individuali sull’entità astratta dei “cattivi compagni”.

Fonte: Cristina Colli, Aspiranti "cattivi", in Fare male, farsi male, a cura di Elena Rosci, FrancoAngeli, 2003

Adolescenti e violenza: come cambia la percezione sociale del comportamento giovanile

I mass media sempre più spesso riportano notizie che hanno per protagonisti adolescenti e giovani autori di reati che turbano l’opinione pubblica, per l’allarme sociale che può generare la consapevolezza di avere in evoluzione una generazione piena di contraddizioni, rabbia, apparente mancanza di valori, che usa la violenza come risoluzione di situazioni fra loro estremamente eterogenee. L’ultimo caso di bullismo in un Istituto Salesiano di Torino, ha causato il ricovero in ospedale di un giovane di 15 anni, operato di asportazione della milza , spappolata durante un “gioco” con un compagno di scuola cultore di arti marziali.
Riflettere sul comportamento aggressivo e sui reati egli adolescenti è importante perché la rappresentazione sociale di questi comportamenti comporta una risposta educativa, psicoterapeutica e nei casi specifici, penale.
Dal punto di vista dell’adolescente trasgressivo, la risposta ricevuta di fronte al proprio comportamento può costituire sia un fattore di rischio sia un fattore di protezione, poiché ha un importante effetto di “etichettamento” sociale e di definizione della sua identità.
I reati minorili più clamorosi tendono spesso ad essere generalizzati e attribuiti alla condizione di adolescente, che diventa una sorta di imputato collettivo, molto più facilmente oggetto di proiezioni di quanta non accada per reati, altrettanto gravi, commessi dagli adulti.
Un omicidio commesso da un adolescente porta da interrogarsi sulla condizione universale di adolescente, più di quanto non accada per un omicidio commesso da un adulto, per il quale più facilmente si riconosce importanza alla psicopatologia individuale o all’appartenenza a gruppi criminali. Proprio per questo nell’adolescente autore di reato è importante capire e distinguere, nelle motivazioni che ne possono essere alla base, tra la trasgressività adolescenziale e l’antisocialità, tra la criminalità e la follia.
Il più evidente effetto di cambiamento nella percezione sociale della violenza messa in atto dagli adolescenti è dovuto all’effetto di distorsione a carico della rappresentazione dei mass media, che per loro natura tendono a prestare più attenzione agli eventi eccezionali, rendendoli nello stesso tempo emblematici.
Questa rappresentazione crea facilmente allarme sociale, contribuendo a sua volta a determinare la percezione del valore trasgressivo di alcuni comportamenti, che possono determinare fenomeni di emulazione, e che finisce per determinare l’andamento delle denunce.
L’idea che i reati commessi dagli adolescenti , soprattutto quelli violenti siano in aumento è diffusa, ma non convalidata dall’analisi dei dati, che rivelano come la maggior parte dei reati degli adolescenti siano i furti,mentre i crimini violenti sono meno del 10% ( Maggiolini, 2003).
L’antisocialità minorile è soprattutto appropriativa, più che aggressiva e violenta.

I motivi che sono alla base di questi comportamenti sono oggetto di numerosi studi che saranno illustrati in ulteriori approfondimenti sul tema.

Fonte: Alfio Maggiolini, Adolescenti antisociali, in Fare male Farsi male, Adolescenti che aggrediscono il mondo e se stessi , a cura di Elena Rosci, FrancoAngeli, 2003

sabato 1 marzo 2008

Storia di serial killer, scoiattoli e code lunghe. La pubblicità e la sua visione del mondo.

Negli ultimi quarant’anni il mondo è cambiato. Internet e le nuove tecnologie hanno rivoluzionato il nostro modo di intendere le coordinate spazio-temporali (e continuano a cambiarci, anche se qualcuno ancora non se ne è accorto;-) Ma, ben prima, importanti trasformazioni demografiche e sociali hanno modificato il nostro vivere quotidiano. Dal ’68 alla rivoluzione femminile, dal baby-boom alla fine del lavoro gli ultimi quarant’anni dovrebbero averci insegnato almeno una cosa: di stabile è rimasto davvero poco. Eppure, qualcuno non se è accorto.
Mi riferisco ai pubblicitari. Straordinari cervelli che per primi ci han fatto capire i vantaggi di parlare (o quanto meno masticare) l’inglese, della mentalità marketing-oriented e di un approccio problem-solving, sempre sul pezzo o meglio un pezzo avanti, i primi trendsetter, scopritori di nuove tendenze e di qualsiasi segnale, debole o forte, che venisse dal mercato o dalla gente, ovunque nel mondo. Qualcuno mi dovrà spiegare, prima o poi, perché persone con queste supreme capacità quando creano spot per persone “comuni”, noi poveri uomini e donne della strada, signore marie, lo fanno sulla base di stereotipi diciamo - per essere molto buoni - un filo antiquati ed asettici. Due esempi tra i tanti: ma secondo voi perché dovremmo provare desiderio d’acquisto per un chewing-gum che si pubblicizza con uno scoiattolo che per spegnere l’incendio nel bosco (?) alza la zampetta e produce quello che potremmo definire un virulento attacco di petulenza? Che cosa fa ritenere che una gentile padrona di casa si identifichi facilmente con una piovra, una giraffa o una millepiedi nell'utilizzo di un deodorante per ambienti? E soprattutto: ma chi le conosce tutte queste assatanate serial killer di bacilli e batteri, donne ululanti e vogliose di case pulite e bianchi più bianchi?
Dov’è finita l’ironia, la creatività, la cultura dei vecchi pubblicitari? Ogilvy – un grande del passato – soleva dire: se non hai nulla da dire sul tuo prodotto, cantalo. Salvo poi farsi scarrozzare in giro per ore e ora su una Rolls Royce che doveva pubblicizzare per inventare una campagna che è rimasta inossidabile nel tempo: su una rolls royce l’unico rumore che sentirai è il ticchettio del tuo orologio. Non penso avesse in mente questo annuncio, il copy che recentemente, per indurci a pensare all’audi TT, ha scritto uno spot radio basato su un ttttttttttttttittttttttttttttttttttti che meriterebbe lo strangolamento del povero speaker prima e del copy stesso poi. Sarà una macchina su cui non c’è proprio altro da dire? Mah. Il vecchio magnate Ford (quello delle macchine, per intenderci) sosteneva che il 50% dei soldi investiti in pubblicità erano buttati, ma non sapendo quali cinquanta non poteva evitare di spenderne cento. Temo che quelle percentuali oggi sarebbero da rivedere, e più che al 50/50 di Ford darebbero ragione a Pareto e alla sua legge dell’80/20 (quella che oggi si chiama legge della long tail, coda lunga, tanto per rimanere in tema di scoiattoli e zebre).
Accusati di fare prodotti vuoti e di basso livello, televisione e pubblicità si difendono dando la colpa a chi guarda. Ma già nel 1968 il grande Bruno Munari avvertiva: “Il grado culturale di una certa massa di pubblico al quale si vuole dare una certa informazione va considerato, ma non nel senso in cui molti pubblicitari ancora oggi fanno: essi sostengono infatti che essendo una certa categoria poco intelligente, bisogna darle dei messaggi stupidi. Caso mai bisogna darli molto più chiari (il che comporta spesso un maggior lavoro di ricerca e quindi, tanto è lo stesso, non viene fatto). Con i bambini bisogna essere molto semplici ma estremamente chiari, non stupidi, altrimenti i bambini, e chiunque abbia mentalità infantile, non capiscono addirittura. E questo lo sa bene chi fa buoni libri per bambini. Si tratta sempre di un problema di chiarezza, di semplicità. C’è molto lavoro da fare per togliere, invece di aggiungere. Togliere il superfluo per dare una informazione esatta, invece che aggiungere e complicare l’informazione”.

Fonte: Bruno Munari, Design e comunicazione visiva, Laterza 1968

Arte, tecnica e cambiamento. Quando l’arte è comunicazione del presente

"La pigrizia è il motore del progresso. E’ lo stimolo che ci spinge ad ottenere ciò che desideriamo facendo il minimo di fatica fisica; il massimo risultato col minimo sforzo è ormai una legge di economia. Si può dire che nel nostro organismo, nel nostro corpo, ci sono due entità distinte con due caratteri distinti: una è il cervello che va con la velocità del pensiero, l’altra sono i muscoli che cercano di fare meno fatica possibile. Ma siccome per ottenere qualcosa che il cervello pensa, occorre spesso mettere in funzione i muscoli, e dato che i muscoli tendono alla pigrizia, ecco che il cervello inventa un sistema per ottenere la stessa cosa facendo lavorare i muscoli il meno possibile.
Succede anche spesso che il cervello rinunci a certe cose proprio perché si farebbe troppa fatica per averle. Il massimo desiderio dell’uomo è quello di premere un pulsante e avere quello che vuole stando sdraiato su di un comodo divano. Tutte le macchine che abbiamo inventato sono fatte apposta per sostituire i muscoli: invece di camminare si sediamo nell’auto, invece di lavorare a mano un pezzo di ferro, usiamo il tornio; il principio è quello di arrivare allo scopo non solo senza fatica fisica ma anche con maggiore precisione. Tutti sanno che un pezzo di metallo tornito a macchina è più preciso di uno tornito a mano, e che un cerchio disegnato a mano è meno preciso di un cerchio fatto col compasso. Difatti, dopo l’invenzione di questi strumenti, nessuno più fa i cerchi a mano; si può affermare anzi che quando si intuisce, osservando un oggetto fatto a mano, che l’autore ha dovuto fare molta fatica per ottenerlo, si prova come un senso di pena: un buon acrobata non fa mai vedere lo sforzo.
Anche nel campo artistico un prodotto fatto con rapidità conserva tutta la vita che era presente al momento concepitivo: le foglie di bambù di un dipinto cinese o giapponese sono fatte in un attimo, ma sono state osservate per lungo tempo. Osservare a lungo, capire profondamente, fare in un attimo. Cervello e muscoli lavorano nelle migliori condizioni: il prodotto è vivo.
[…] L’arte è un fatto mentale la cui realizzazione fisica può essere affidata a qualunque mezzo. Nelle vecchie accademie l’insegnamento è ancora spesso basato sulle antiche tecniche, e mentre gli studenti faticano attorno ad una tecnica superata, il loro cervello è già nel prossimo futuro. Anche nelle cosiddette “scuole d’arte” sarebbe necessario sveltire l’insegnamento, abbandonare i preconcetti che legano l’arte solo a certe tecniche, considerare che non tutta l’arte è destinata all’eternità, abolire l’idea di fare una scuola per la produzione di opere da élite, soprattutto non parlare più di arte ma di comunicazione visiva. Se ci sarà arte sarà un fatto assolutamente indipendente dalla scuola. Noi possiamo educare a capire l’arte (la comunicazione visiva), ma non possiamo formare artisti e tanto meno genii.
(…) facciamo quindi un programma per una scuola tecnica di comunicazione visiva, dove si mettano a punto i problemi di oggi e non di ieri, dove si faccia della ricerca sul domani sia come mezzi di comunicazione visiva, sia come metodi di lavoro. E dove si insegni, a puro scopo culturale e non operativo, anche la storia dell’arte, assieme però a studi di sociologia e psicologia. Naturalmente dicendo storia dell’arte penso alla storia dell’arte di tutti i popoli, non a quella che ci hanno insegnato che partiva dalla preistoria e saltava subito alla Grecia e all’arte di casa nostra. Oggi tutto il mondo è da conoscere e fra poco conosceremo anche se sulla luna c’è qualche forma di comunicazione visiva. Perdiamo dei valori? No, ne acquistiamo degli altri".

Da: Bruno Munari, Design e comunicazione visiva, Laterza 1968