giovedì 8 gennaio 2009

Sulla malattia, i numeri e le medie.

Le parole dell'ultimo post di Isa, relativo alla malattia, mi hanno colpito.
E' vero, la malattia riesce a cambiare completamente il nostro rapporto con il corpo e con la vita. Ed è altresì vero che è più difficile per lo specialista, il medico o chiunque ne sappia di medicina, accettare la malattia dentro di sé, conoscendone la possibile evoluzione. E' più difficile sperare e ricordarsi che, se anche la probabilità statistica è contro di noi, noi non siamo una media e, soprattutto, la
media è sempre espressione di una tendenza centrale, non riguarda la totalità dei casi. I numeri talora possono essere usati contro di noi, da chi non li sa usare oppure dal nostro cervello, che può focalizzarsi su una parte dell'insieme di possibilità.

Lascio esprimere questo concetto a Stephen Jay Gould, uno dei più prestigiosi biologi evoluzionisti. Questo difficile rapporto tra malattia e numeri, lui l'ha vissuto sulla sua pelle e sa dirlo molto meglio di quanto non saprei mai fare io.

Una carezza virtuale, con infinito affetto, a tutte le persone che in questo momento stanno coltivando dentro di sé il dubbio della malattia, o il suo seme. E una carezza anche alla mia sorellina, matematica, che vorrà perdonarmi questo "attacco" (che non è contro i numeri, ma contro i numeranti e i terroristi dei numeri).

Nel 1982 a quarant’anni mi è stato diagnosticato un mesotelioma addominale, una forma di tumore rara e “inevitabilmente fatale” (per citare tutti i giudizi ufficiali del tempo)… Dopo lo shock iniziale, non appena il mio cervello riprese a funzionare, iniziai a riflettere sui dati e sul verdetto cruciale di “otto mesi di mortalità mediana”. Impostai il mio ragionamento da biologo evoluzionista.
Cosa significano “otto mesi di mortalità mediana”? Eccoci all’errore filosofico che ha motivato questo libro: la maggior parte della gente vede le medie come realtà fondamentali e la variazione come uno strumento per calcolare una misura significativa di tendenza principale. In questo mondo platonico, “otto mesi di mortalità mediana” può soltanto significare: “probabilmente tra otto mesi sarà morto”, forse la diagnosi più raggelante che si possa mai leggere.
Commettiamo un grave errore se consideriamo una misura della tendenza principale come il valore più probabile per ogni singolo individuo; eppure molte persone lo commettono per tutta la vita. La tendenza principale è un’astrazione, la variazione è la realtà. Innanzitutto, dobbiamo chiederci cosa significhi mortalità “mediana”... io non sono una misura della tendenza principale, sia essa la media o la mediana. Sono un singolo essere umano con il mesotelioma, e pretendo una valutazione migliore delle mie possibilità, perché ho delle decisioni personali da prendere, e i miei impegni non possono essere stabiliti da medie astratte. Ho bisogno di porre me stesso nella regione più probabile di una distribuzione di variazione che sia basata sui particolari del mio caso personale; non devo semplicemente presumere che il mio destino corrisponderà a qualche misura della tendenza centrale...

(...) Sono stato curato e guarito da medici coraggiosi, i quali hanno usato un metodo sperimentale che adesso può salvare altri ammalati quando scoprano la malattia in uno stadio precoce

(...) è stata fatta molta strada dai giorni oscuri in cui le diagnosi di tumore venivano scrupolosamente nascoste ai pazienti, sia per la deplorevole ragione che molti medici consideravano il sotterfugio come il modo migliore per mantenere il controllo, sia per il pietoso (e il malaccorto) presupposto che la maggior parte della gente non riuscisse a tollerare una notizia che era un ultimatum e una sentenza di morte. È impossibile però superare gli ostacoli con l’ignoranza: pensiamo a che contributo avrebbe potuto dare Franklin D. Roosevelt alla nostra concezione dell’handicap se, invece di nascondere con la tanta abilità la sua paralisi, avesse dichiarato apertamente che non governava certo con le gambe...


Stephen Jay Gould, Gli alberi non crescono fino al cielo, Mondadori
Foto bambino: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/exitdoors/2383203300/)

venerdì 25 luglio 2008

Tom Sawyer e il lavoro. La sottile arte della ristrutturazione!

Noi e il mondo. Noi e la vita. Una relazione spesso conflittuale. Quante volte ci troviamo a pensare che il mondo non è proprio come dovrebbe essere, che la vita è ingiusta, noi meriteremmo di più e meglio, gli altri non capiscono, ci hanno fraintesi, il nostro capo è una capra…
Se noi potessimo fare le cose come vogliamo noi, allora sì, il mondo andrebbe meglio. Dovunque: sul lavoro, nella nostra famiglia, i vicini, persino la nostra amica – quella splendida persona, in gambissima, eccezionale, che adoriamo – eppure anche lei fa sempre i soliti errori e non capisce, se solo ci ascoltasse un po’ di più sarebbe così semplice, potrebbe avere tanto di più…

Noi faremmo meglio. In un delirio di onnipotenza che ci coinvolge più o meno tutti, noi abbiamo un quadro della situazione chiaro, lineare, cristallino, soprattutto per quanto riguarda la vita degli altri. Nella nostra vita, quando le cose non vanno ed accettarle diventa impossibile (la realtà cozza troppa con la nostra consapevolezza di come le cose dovrebbero essere, per essere giuste), allora cerchiamo di cambiare: le persone, gli eventi, le cose. E in questo infinito tentativo di cambiare le cose, forse per lasciare un segno nel mondo, ci rendiamo conto che cambiare il fuori è un’impresa improba (se mai possibile) e certo non duratura. Tutte le cose ruotano e la staticità – anche se ci illudiamo di trovarla deterministicamente nelle cose e nelle persone – proprio non è di questo mondo.

Ignoriamo forse la via più semplice. Che non è l’indifferenza, la rassegnazione, la depressione in cui cadiamo spesso quando ci rendiamo conto che il mondo e le persone non sono lì per essere cambiate da noi. No. A parte l’illusione (o velleità, o aspirazione) al cambiamento del mondo, e la depressione, c’è una terza via, che è quella di cambiare noi stessi. E’ l’essenza stessa delle filosofie orientali e forse anche di quelle occidentali (alcune, per lo meno). Maturare la consapevolezza che la vita è un fiume che scorre e noi possiamo goderci l’avventura su quella nostra piccola zattera, piccole monadi in un mondo che spesso non capiamo (ma dobbiamo farlo?) e talora non riusciamo proprio ad amare, se solo ci lasciamo guidare dall’acqua ed assistiamo allo spettacolo, prendendo parte con la leggerezza possibilitista del saggio che accetta i limiti del suo operato (quanta fatica risparmiata nel non dover/voler cambiare il mondo!) e che le persone vanno amate anche con tutti i loro difetti.

Mi sembra che questo concetto sia espresso in maniera chiarissima in una citazione di Twain riportata in un libro vecchio eppure giovanissimo (e ancora disponibile in commercio), scritto da tre grandi protagonisti del mitico Mental Research Institute di Palo Alto, Watzlawick, Weakland e Fish. Buona lettura.

«È sabato pomeriggio, vacanza per tutti tranne che per Tom Sawyer che per punizione deve imbiancare trenta jarde di steccato, alto nove piedi. La vita gli sembra vuota e l’esistenza solo un pesante fardello. Non è però il lavoro che trova insopportabile, soprattutto lo tormenta l’idea che i suoi compagni gli passeranno accanto e lo prenderanno in giro perché lui deve lavorare. Ma in questo momento buio e senza speranza, spiega Mark Twain, lo illuminò un’ispirazione. Una grande, una magnifica ispirazione. Poco dopo compare un ragazzo, proprio il ragazzo ch’egli più temeva per i suoi sarcasmi».

“Ehi, vecchio, un po’ di lavori forzati, vero?”
“Oh, sei tu, Beh? Non m’ero neppure accordo che c’eri…”
“Senti, io vado a nuotare al fiume, adesso. Non ti piacerebbe venirci anche tu? Ma forse tu preferisci lavorare, vero? Ma sicuro che lo preferisci…”
Tom fissò il ragazzo per un istante, poi chiese: “Cos’è che chiami lavorare?”
“Be’, quello che fai adesso, non è un lavoro?”
Tom riprese il pennello e risposte con molta indifferenza: “Be’, in un certo senso lo è, e in un certo senso non lo è. Quello che so di positivo è che a Tom Sawyer gli piace”.
“Che storia vuoi darmi da bere? Forse che ti diverti a fare l’imbianchino?”.
Il pennello continuò imperterrito.
“Se mi diverto? Be’, non riesco a capire perché non dovrei divertirmi. Forse che uno steccato da imbiancare lo trovano tutti, ogni giorno?”
L’osservazione presentava il lavoro in una nuova visuale. Ben smise di mordicchiare la mela. Tom passò con estrema cura il pennello in su e in giù, poi si ritrasse a osservare l’effetto, diede un colpetto qui, un colpetto là, ma non pareva ancora soddisfatto. Ben osservava ogni movimento, e si interessava sempre più, si sentiva sempre più attratto da quel lavoro. Improvvisamente disse: “Senti, Tom, lasciami imbiancare un poco anche a me”.

Fonte:
Paul Watzlawick, John H. Weakland, Richard Fisch, Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi, Astrolabio, 1974
Mark Twain, Tom Sawyer Huckelberry Finn, Einaudi, Torino, 1963

Ricordiamoci di non portare in vacanza i cattivi pensieri ;-)

"Il terzo giorno, il piccolo Principe parla del pianeta infestato dai baobab. I baobab prima di diventare grandi cominciano con l’essere piccoli e se non si è diligenti ad estirparli, diventano grandi, prendono il sopravvento, mangiano il pianeta e qualsiasi possibilità di sopravviverci.
“Sul pianeta del piccolo Principe ci sono, come su tutti i pianeti, le erbe buone e quelle cattive. Di conseguenza: dei buoni semi di erbe buone e dei cattivi semi di erbe cattive. Ma i semi sono invisibili. Dormono nel segreto della terra fino a che all’uno o all’altro pigli la fantasia di risvegliarsi. Allora si stira, e sospinge da principio timidamente verso il sole un bellissimo ramoscello inoffensivo. Se si tratta di un ramoscello di ravanello o di rosaio, si può lasciarlo spuntare come vuole. Ma se si tratta di una pianta cattiva, bisogna strapparla subito, appena la si è riconosciuta. C’erano dei terribili semi sul pianeta del piccolo Principe: erano i semi del baobab. Il suolo ne era infestato. Ora, un baobab, se si arriva troppo tardi, non si riesce più a sbarazzarsene. Ingombra tutto il pianeta. Lo trapassa con le sue radici. E se il pianeta è troppo piccolo e i baobab troppo numerosi, lo fanno scoppiare.

“E’ una questione di disciplina – mi diceva più tardi il piccolo principe – quando si ha finito di lavarsi al mattino, bisogna fare con cura la pulizia del pianeta. Bisogna costringersi regolarmente a strappare i baobab appena li si distingue dai rosai ai quali assomigliano molto quando sono piccoli. È un lavoro noioso, ma molto facile”.

(…) e così dico: “Bambini! Fate attenzione ai baobab!”

Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, Bompiani, 1993

lunedì 14 luglio 2008

Che cosa mi rende unico?

Nell'agosto 2007, il professor Randy Pausch (docente di informatica presso una prestigiosa università americana e grande esperto di realtà virtuale) scopre che il cancro contro il quale stava combattendo da tempo lo condanna senza speranza. Sceglie di abbandonare l'università per stare vicino alla famiglia e concede un'ultima conferenza, un'ultima lezione, che è stata pubblicata in Italia da Rizzoli con il titolo "L'ultima lezione. La vita spiegata da un uomo che muore", una lettura raccomandabile. Traiamo da questo libro alcuni iniziali commenti di Randy.

"Che cosa mi rende unico?"
Era questa la domanda che dovevo pormi. Trovare una risposta mi avrebbe forse aiutato a capire come impostare il discorso. Seduto nella sala d'aspetto all'ospedale John Hopkins, in attesa dell'ennesimo referto medico, usavo Jay (la moglie, ndr) come cartina di tornasole per alcune mie idee.
"Il cancro non mi rende unico" le ho detto. Nessun dubbio al riguardo. Il solo tumore al pancreas viene diagnosticato ogni anno a più di 37.000 americani.
Ho riflettuto a lungo su come definirmi: insegnante, informatico, marito, padre, figlio, fratello, mentore per i miei studenti. Si tratta di ruoli cui ho sempre dato valore. Ma quali di questi mi hanno contraddistinto? Benché abbia sempre avuto un ego piuttosto sviluppato, sapevo che per questa lezione serviva qualcosa in più della semplice presunzione. Mi sono chiesto: "C'è qualcosa che solo io sono in grado di dare?"
E lì, all'improvviso, nella sala d'attesa, ho capito esattamente di cosa si trattava. Mi ha letteralmente fulminato. Qualsiasi fossero stati i miei risultati, tutto quello che avevo amato nella vita aveva origine nei sogni e negli obiettivi che avevo da bambino... e nel fatto di averli realizzati quasi tutti. La mia unicità, ho compreso in quel momento, risiedeva in tutti i sogni - alcuni significativi, altri eccentrici - che hanno caratterizzato i miei quarantasei anni di vita. Nonostante il cancro, seduto in quella sala d'aspetto, ho capito di essere davvero un uomo fortunato perché li ho realizzati. In gran parte, grazie agli insegnamenti ricevuti, strada facendo, dalle persone straordinarie che ho potuto conoscere. Se avessi raccontato la mia storia trasmettendo la passione con cui ho vissuto, allora la mia lezione avrebbe potuto aiutare anche gli altri a trovare la strada per realizzare i propri sogni."

giovedì 3 luglio 2008

Meglio essere ottimisti?

Gli ottimisti, ci dicono gli scienziati (soprattutto psicologi cognitivi e psicologi della salute), sopravvalutano la realtà. Non solo: tendono ad essere più approssimativi, meno precisi quando vengono interrogati sulle probabilità di eventi negativi, offrono valutazioni ottimistiche che sono per lo più irrealistiche. I pessimisti, per contro, sono aquile abili e matematicamente molto forti: accurati nel valutare i rischi di ogni genere di disastro che potrebbe capitare loro, dagli incidenti aerei alla probabilità di essere investiti da una macchina. Assolutamente consapevoli di tutti i rischi-pericoli-problemi, i pessimisti conoscono la realtà molto meglio degli ottimisti, che loro ritengono – a ragione – futili, leggeri e sconsiderati.

La domanda che si sono posti gli scienziati è quella che ognuno di noi dovrebbe porsi: val la pena conoscere bene la realtà? Il confronto realistico con la realtà – che gli psicologi identificano come indice di salute mentale – è davvero auspicabile, ci fa vivere meglio?

Il meglio, ovviamente, è una valutazione di carattere profondamente soggettivo. Gli scienziati per ora si sono concentrati sul quanto e risulta abbastanza chiaro che essere ottimisti, nella vita, aiuta a vivere di più. Il pessimismo è dannoso per la salute. Gli individui pessimisti affetti da malattie cardiache hanno maggiori probabilità di morire a causa di tali disturbi rispetto agli ottimisti con uguali patologie e sono più predisposti a contrarre una patologia tumorale. In uno studio condotto negli anni 40 su un campione di studenti di medicina di Harvard, un alto livello di ottimismo all’età di vent’anni faceva prevedere un ottimo stato di salute all’età di sessantacinque. Queste ricerche sono state replicate negli anni con risultati analoghi.

Al di là del regalarci una vita potenzialmente più lunga, inoltre, l’ottimismo ci dà strumenti oggettivi e misurabili durante il suo corso. Ce lo dimostra, in maniera inequivocabile, un esperimento condotto sui topi. Negli anni 80 il professor Morris, brillante ricercatore inglese diventano molto celebre proprio per questo studio, suddivise casualmente un campione di topolini bianchi in due gruppi: uno ad uno i topini vennero immersi in una vaschetta d’acqua contenente un isolotto (gruppo 1) oppure senza isolotto (gruppo 2). L'isola - laddove presente - doveva consentire ai topini di starsene tranquilli e rifocillarsi evitando di nuotare per un po'.
In una seconda fase dello studio, con gli stessi soggetti sperimentali e la stessa vaschetta, venne introdotta una modifica: l’acqua della piscina fu resa opaca con del latte. I topolini del gruppo 1, memori dell'esistenza di un'isola, pur non vedendola nuotarono in cerca della piccola oasi di pace finché non la trovarono. Quelli del gruppo 2 (che non avevano sperimentato la possibile esistenza di un'isola) nuotarono a caso senza alcuna ricerca.
Infine, nella terza fase dell’esperimento, tutti i topi – uno ad uno – furono fatti nuotare nella vasca privata dell’isolotto e vennero estratti quando erano allo stremo delle forze. Morris scoprì (tra le altre cose) che i topini che cercavano l’isolotto avevano resistito il doppio di quelli che non cercavano l’isola.

Se qualcuno avrà storto il naso sull’esperimento (cosa c’entrano i topi?), il suo valore in questo caso è dato proprio dal fatto che in gioco ci fossero esserini così “semplici”. Persino un topo quando si aspetta qualcosa, resiste il doppio di chi non si aspetta nulla. Avere un’isola (quella del tesoro o quella che non c’è) aiuta a lottare molto di più, speranzosi e fiduciosi, con un obiettivo chiaro in testa.

In conclusione, quindi, può essere che il pessimista abbia ragione e l’ottimista sia solo un ingenuo che distorce la realtà. Ma, di fatto, questa distorsione aiuta a vivere di più, meglio e a cambiare la realtà per renderla più vicina alle nostre aspettative. Il pessimista, per sua natura, non fa che incrementare la probabilità che le cose possano andar male, visto che – alla luce della sua brillante lungimiranza – sa quante poche probabilità ci sono che possa anche andar bene.

Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/juliedermansky/258863950/)

lunedì 30 giugno 2008

Se

Se riesci a conservare il controllo quando tutti
Intorno a te lo perdono e te ne fanno una colpa;
Se riesci ad aver fiducia in te quando tutti
Ne dubitano, ma anche a tener conto del dubbio;
Se riesci ad aspettare e non stancarti di aspettare,
O se mentono a tuo riguardo, a non ricambiare in menzogne,
O se ti odiano, a non lasciarti prendere dall'odio,
E tuttavia a non sembrare troppo buono e a non parlare troppo saggio;

Se riesci a sognare e a non fare del sogno il tuo padrone;
Se riesci a pensare e a non fare del pensiero il tuo scopo;
Se riesci a far fronte al Trionfo e alla Rovina
E trattare allo stesso modo quei due impostori;
Se riesci a sopportare di udire la verità che hai detto
Distorta da furfanti per ingannare gli sciocchi
O a contemplare le cose cui hai dedicato la vita, infrante,
E piegarti a ricostruirle con strumenti logori;

Se riesci a fare un mucchio di tutte le tue vincite
E rischiarle in un colpo solo a testa e croce,
E perdere e ricominciare di nuovo dal principio
E non dire una parola sulla perdita;
Se riesci a costringere cuore, tendini e nervi
A servire al tuo scopo quando sono da tempo sfiniti,
E a tener duro quando in te non resta altro
Tranne la Volontà che dice lor "Tieni duro!".

Se riesci a parlare con la folla e a conservare la tua virtù,
E a camminare con i Re senza perdere il contatto con la gente,
Se non riesce a ferirti il nemico né l'amico più caro,
Se tutti contano per te, ma nessuno troppo;
Se riesci a occupare il minuto inesorabile
Dando valore a ogni minuto che passa,
Tua è la Terra e tutto ciò che è in essa,
E - quel che è di più - sei un Uomo, figlio mio!

Rudyard Kipling

venerdì 6 giugno 2008

La mente è più grande.


La mente – è più grande del cielo –
Perché – se li metti fianco a fianco –
L’una contiene l’altro
Facilmente – e te – anche –

La mente è più profonda del mare –
Perché – se li tieni – blu contro blu –
L’una assorbirà l’altro
Come una spugna – un secchio –

La mente ha giusto il peso di Dio –
Perché – alzali – libbra su libbra –
Ed essi differiranno – semmai –
Come suono da sillaba.

Emily Dickinson, 1862

Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/valerius25/463968859/)