domenica 6 aprile 2008

Frank Gehry. Il creatore di sogni.

Ci sono eventi, momenti, incontri che possono cambiare il corso della nostra vita. Non mi sto riferendo agli eventi drammatici che ci investono spezzando tutto quello che trovano, né dei momenti epici di passaggio (matrimonio, laurea, nascita dei figli, pensionamento). Penso piuttosto a quegli incontri occasionali che il caso o il destino collocano sulla nostra strada con tanta indifferenza che ci mettiamo anni anche solo per rendercene conto.

Metti che a sedici anni vai ad una conferenza, trascinato da una forza che non sai denominare né capire: chiamala noia, voglia di uscir di casa o curiosità. Non sai chi parlerà, né di cosa. Ti trovi davanti un vecchio signore che ti colpisce per i suoi capelli bianchi e per i discorsi che fa. Parla di una disciplina di cui non sai nulla, l’architettura, ma lo fa con una passione assoluta, coinvolgente e contagiosa. Non ci pensi per anni. Poi, improvvisamente, ti svegli e ti rendi conto che è quello, proprio quello, che vorresti fare per tutta la vita.

Non è la trama di un film, ma la storia di Frank Gehry, architetto americano tra i più osannati e i più criticati. È autore di decine di progetti dal Guggenheim Museum di Bilbao a piccoli complementi d’arredo (soprattutto lampade), da sculture a forma di pesce a collezioni di gioielli disegnate per Tiffany. Non è stata semplice, la sua vita. Ristrettezze economiche quand’era ragazzo, appena inizia l’università un docente che gli dice, con candore paternalistico, “Frank, cambia strada, l’architettura proprio non fa per te”, un fallimento matrimoniale, un’attività professionale (nel suo ramo) in cui deve fare cose che non lo convincono. Ma lui la lezione di Alvar Aalto (il vecchietto dai capelli bianchi) l’ha incamerata bene. Seguire la propria passione e fare le cose come le vediamo con gli occhi della mente e della fantasia, plasmando la realtà in modo da creare lo spazio per i nostri mondi possibili: questo dà senso al lavoro, all’arte e forse anche alla vita.

Sydney Pollack, nel documentario che ha dedicato alla vita di Gehry, lo ha chiamato “Creatore di sogni”. Uno che non si arrende mai: non davanti alle parole dell’insegnante che vuole fargli cambiare strada, non davanti ai materiali che sembrano incompatibili con la forma che chiede di essere realizzata, e nemmeno davanti alle soluzioni troppo semplici. Quando sono troppo semplici? La sua risposta ha delle evocazioni pascaliane: è troppo semplice quando non soffri almeno un po’ per arrivarci. È un percorso che va dalla semplicità alla complessità e poi torna indietro, un passaggio continuo dalla mente alla carta, da questa ai modellini tridimensionali e poi di nuovo alla carta, alla mente, in un continuo circolo virtuoso. Di modellini non ne fa mai uno solo, ma svariati e in scale diverse: è troppo facile innamorarsi di una forma in una dimensione, per capirla bisogna vederla in scale diverse, solo allora riesci a vedere quello che hai di fronte e ti stacchi un po’ dall’immagine che hai in testa.

Cosa fare, dunque, quando la vita si oppone ai nostri progetti, quando siamo così confusi da non ricordarci neanche quali siano i nostri progetti? Andare avanti, darsi da fare, confrontarsi con le critiche senza assimilarle troppo, cercare di guardare i problemi con occhi nuovi, diversi. Stupirsi sempre della soluzione che arriva, quasi magicamente, e non disconoscerla quando l’abbiamo messa in pratica. Costruire un edificio è un processo titanico: ci vuole così tanto tempo che, quando è finito, sei talmente stanco da vederne ormai solo i difetti. Ma, come dice Gehry, basta aspettare che ci entri la luce, e tutto prende vita.

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